Se hai un cancro o una persona che ami (più di te stesso) ha un cancro, a parte il dolore fisico e la paura della morte, che ti attanaglia come un sottofondo persistente giorno e notte, e le cure dolorose e ripetute, e gli orrendi ospedali, i verdi che quasi mai sanno di speranza, gli odori nauseanti di medicinali e disinfettanti, le facce degli altri malati ormai smunti e senza capelli nei corridoi di oncologia … la cosa più difficile da sopportare sono le reazioni delle persone attorno. Tra chi scappa senza chiedere nulla perché del tutto inadeguato al dolore, chi si fa vivo dopo mesi o anni e ne avresti fatto volentieri a meno, chi vuole essere utile a tutti i costi e pertanto finisce per essere invadente, o peggio, quello che ti dice: «nulla succede per caso».
Alla ventiquattrenne di Los Angeles Emily McDowell è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin stadio 3 e si è sottoposta a nove mesi di chemio e radioterapia.
«La parte più difficile della mia malattia non stava nel perdere i capelli o nell’essere erroneamente chiamata “signore” dai baristi Starbucks, o la chemio in sé» scrive la McDowell sul suo sito, ma «è stata la solitudine e l’isolamento che sentivo quando molti dei miei amici e familiari sono scomparsi perché non sapevano cosa dire o quando dicevano la cosa più sbagliata in assoluto senza rendersene conto».
Ora 38enne, designer e con il cancro in remissione da allora, Emily ha avuto bisogno di metabolizzare l’esperienza dando vita a Empathy Cards, una serie di cartoline, biglietti di auguri, che portano scritto ciò che avrebbe voluto sentirsi dire quando stava male.
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