Ci sono culture che hanno un’identità talmente forte, definita, condivisa e codificata da rendere molto complicato uscire dagli stereotipi, per lo meno in fatto di estetica.
Pensa all’hip-hop, a tutto l’apparato (seppur in costante cambiamento/evoluzione) di simboli, stili, marchi e riferimenti, dall’abbigliamento alle copertine dei dischi, dalle grafiche dei flyer alle riviste specializzate.
E proprio una rivista prova a rovesciarli, questi stereotipi, togliendo dall’hip-hop tutta la “buccia”, spogliandolo dal fattore “prevedibilità” e andando diritta ai contenuti, “vestendoli” con un progetto grafico pulito e razionale, che ricorda innegabilmente tutta una serie di riviste indipendenti uscite negli ultimi anni.
Ma se — potrebbe obiettar qualcuno — pure l’estetica da rivista indipendente è diventata un altro prevedibile stereotipo, è vero però che in questo caso la mimesi ha senso, e funziona.
Funziona perché destabilizza. Funziona perché il contrasto tra forma e sostanza privilegia quest’ultima e ti fa godere l’ottimo lavoro editoriale di questo nuovo semestrale, chiamato Brick, che debutta con un volumone di quasi 250 pagine che raccontano, analizzano, intervistano, mostrano la (cito dal magazine) “new age” dell’hip-hop.