Forse il paragone non è del tutto esatto ma in un certo senso la calligrafia sta alla scrittura come la danza al teatro.
La calligrafia è movimento.
Scrive Jean François Billeter, professore svizzero esperto di cultura e scrittura cinese nel suo L’arte cinese della scrittura:
[…] non sono più le cose in se stesse ad attirare la nostra attenzione, ma il movimento che le anima e l’espressione che emanano. Non è più questo o quel volto, ma la nascita di un sorriso, non la donna ma lo stile della sua andatura, non il gattino, ma la sua capriola.
E l’elenco di movimenti da cui i grandi maestri della calligrafia cinese hanno preso ispirazione per i loro capolavori — catturando un atto dinamico e trasferendolo sul foglio — è fatto proprio di danze, combattimenti tra serpenti, rivoluzioni planetarie, scorrer di ruscelli montani, schiudersi dei fiori…
Non è tanto importante ciò che è scritto (o almeno: non soltanto quello) ma come è scritto, in che modo danzano i segni. E non è detto che il supporto debba essere la carta, come dimostrano tanti writer — arte, quella del graffitismo, da cui provengono molti calligrafi contemporanei e che ha dato nuova linfa al settore — che le loro parole danzanti le tracciano sui muri o, magari, pure su un improvvisato, precario, temporaneo “foglio” di neve e di ghiaccio, come ha fatto Faust, artista newyorkese che durante le nevicate che hanno coperto la Grande Mela in questi ultimi anni ha usato i vetri e i cofani delle auto in sosta o i davanzali dei palazzi per lasciare il suo segno.
Guardando le foto della sua serie Snow Script non sembra di vederlo pattinare, quel dito anonimo (di Faust, nonostante le tante collaborazioni con marchi del calibro di Nike, New Era, Samsung, Absolut, Def Jam e Fabergé, non si conosce le vera identità), in un’aggraziata, rapida, irripetibile danza, pronta a sciogliersi al primo sole?
