Come amare la terra e fare un vino che conquista il mondo: intervista a Piero Lanza, dell’azienda agricola Poggerino di Radda in Chianti

Piero Lanza mi dà appuntamento nel piccolo ufficio che accoglie gli ospiti a Poggerino, l’azienda di cui si occupa con sua sorella Benedetta. La cantina è lì a due passi e Piero arriva direttamente col trattore su cui passa circa 700 ore l’anno.
Nei suoi campi la chimica è bandita e, a differenza delle aziende che usano i diserbanti in vigna e in mezz’ora fanno quello che lui fa in un giorno, qui bisogna muoversi molto ed essere molto precisi, altrimenti si rischia di fare danno alle viti.
La precisione, la tenacia e la pazienza sono doti di cui Piero sembra possedere scorte infinite, a giudicare dai livelli a cui ha portato la sua azienda vinicola partendo praticamente da zero.

* * *

Mi racconti come nasce Poggerino?

Poggerino è la costola di una grande azienda acquistata da mio nonno nel 1940. Quando lui è mancato, nel ’72, ha lasciato l’azienda a mio zio, maschio primogenito di famiglia nobile fiorentina [Ginori-Conti, ndr]. Mia madre ebbe solo una parte della proprietà, ma poi nel ‘79 lei e mio padre rilevarono il tutto. La prima vigna qui è stata piantata nel 1973.

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Non avevo la passione del vino ma poi mi sono iscritto al liceo di Agraria perché lì non c’erano latino e greco e il mio prof. di chimica m’insegnò agraria a livello quasi universitario

E come hanno iniziato quest’avventura i tuoi genitori, avevano un enologo qui in azienda?

All’inizio è stato tutto un po’ improvvisato. Parliamo dei primi anni 70, mio padre lavorava in banca e, praticamente, s’improvvisò viticoltore.

Anticipando un trend degli anni successivi: avvocati, medici e professionisti vari che lanciano aziende vinicole.

Anticipando anche la pensione, visto che lasciò il lavoro a 50 anni. Avevano un fattore, un enologo, ma le cose venivano fatte in maniera molto diversa da oggi: allora i disciplinari non erano rigidi come adesso e anche la qualità del Chianti Classico non era altissima.
Poi ci fu lo scandalo del metanolo, che segnò una svolta per la viticoltura. Si fece di tutta l’erba un fascio, anche se poi le aziende responsabili erano due o tre e ben note, ma il clamore costrinse un po’ tutti ad alzare l’asticella della qualità.

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Volevo tenere tutto sotto controllo, e con la chimica ti insegnano che puoi farlo. È come quando vai dal medico: hai questa malattia, prendi questa medicina, hai quest’altra malattia, prendi quest’altra medicina. Hai l’erba? Usi i diserbanti, senza porti il problema di cosa succede dopo

Tu come sei entrato in azienda? Avevi già questa passione?

No, io zero. Mi ero iscritto al liceo di Agraria a Firenze solo perché lì non c’erano latino e greco. Però avevo un professore di chimica organica che m’insegnò agraria a livello quasi universitario, e mi appassionai. Fra l’altro avevo la possibilità di venire in azienda nei weekend, quindi di testare sul campo quello che durante la settimana imparavo sui libri.
Una volta diplomato provai a fare un anno di università, ad Agraria. Però avevo finito la scuola con la nausea della teoria, mio padre si era stufato di lavorare…

Era l’anno?

1987. Passai un solo inverno all’università, non feci neanche un esame. Mollai tutto, mi trasferii qui nel Chianti e il 1988 è stata la mia prima annata – un’ottima annata, fra l’altro, per il Chianti Classico. Mi resi conto che la qualità del nostro vino non era un granché, quindi mi chiesi: «chi è il migliore in zona?». Per mia fortuna ce l’avevo qui accanto: Montevertìne, che è una della aziende storiche toscane, anzi, italiane. Chiedemmo aiuto all’enologo di Montevertìne, ma lui non si poteva occupare anche della nostra azienda e ci indirizzò verso un altro enologo che per me è stato quasi un padre. Lui mi ha veramente insegnato come si fa il vino.

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E la scelta del biologico l’hai fatta fin da subito?

No, quella è una cosa molto successiva. Quando arrivai qui, da inesperto insicuro, volevo tenere tutto sotto controllo, e con la chimica ti insegnano che puoi farlo. È come quando vai dal medico: hai questa malattia, prendi questa medicina, hai quest’altra malattia, prendi quest’altra medicina. Funziona così. Hai l’erba? Usi i diserbanti, senza porti il problema di cosa succede dopo.
Io, non te lo nascondo, ho lavorato per anni così in azienda: ero iper-chimico. Poi, anche in virtù dei viaggi che ho fatto all’estero confrontandomi con altre realtà produttive, con viticoltori, agronomi, enologi di svariate parti del mondo, mi sono detto «ma perché devo inquinarmi con tutte queste porcherie che do ai campi? Tanto vale che mi venda l’azienda. Io e Benedetta ci vendiamo l’azienda e con i soldi che ne ricaviamo campiamo da re». E quindi ho cominciato a levare. Pian piano a levare.

Cos’hai tolto per primo?

In vigna ho aumentato l’uso dei prodotti con base rame e zolfo, diminuendo drasticamente i sistemici, pur senza eliminarli completamente. Però vedevo che le piante crescevano bene, così alla fine ho capito che bisognava fare il salto e ho detto basta alla chimica.

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Ho eliminato i concimi chimici, che rendono la pianta dipendente. La strategia delle multinazionali è questa: le piante diventano dipendenti, tu sei costretto a comprare i loro concimi e loro aumentano i prezzi

Erano gli anni?

Parliamo del 2003, 2004. Ho eliminato i diserbanti che sono una delle prime cose da eliminare perché creano una morte nel terreno, mentre il mio obiettivo è esattamente l’opposto, ovvero creare vita nel terreno. Ho levato tutti i prodotti di sintesi, quelli che dài sul verde durante l’estate, prodotti fatti in laboratorio che entrano all’interno della pianta. Uso solo rame e zolfo. Ho eliminato i concimi chimici, perché sono una droga per la pianta che si abitua a essere nutrita in questo modo, diventa ipertrofica, però poi al momento in cui viene meno il concime schianta. Diventa dipendente.
Infatti la strategia delle multinazionali che producono questi concimi è aumentarne costantemente il prezzo, perché se le piante diventano dipendenti, tu azienda diventi dipendente e sei costretta a comprarli, sei vincolata a loro.
Io invece mi sono concentrato sulla fertilità del terreno, su come trovare sistemi per rendere più fertile il terreno. Uso concimi organici proprio per aumentarne la fertilità. Perché il terreno di per sé è sempre molto ricco di sostanze minerali, bisogna però creare le condizioni per far sì che queste sostanze si rendano disponibili alla radice della pianta. Questa, in due parole, è fertilità del suolo.

Questo per quanto riguarda la vigna. In cantina, invece, com’è andata?

In cantina il discorso è stato diverso. Non ho mai avuto un atteggiamento da “farmacista”, non ho mai “corretto” più di tanto. Quello che facevo era utilizzare lieviti selezionati [per avviare la fermentazione alcolica, ndr] che poi, però, ho eliminato.

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Perché, i lieviti già presenti nella pruina [la sostanza cerosa prodotta dalle cellule superficiali dell’uva, e dei frutti e delle foglie in genere, ndr] non bastavano per avviare la fermentazione?

Ma sai, anche lì, ero stato in Australia, e in quegli anni — ti parlo di circa 15 anni fa — erano molto orientati verso i lieviti selezionati, ti raccontavano «con questo lievito sviluppi questi aromi, con quest’altro lievito sviluppi questi altri aromi»…
Però io ritengo che uno dei passaggi fondamentali che ti permettono di acquisire uno stile nei tuoi vini sia proprio l’utilizzo di lieviti autoctoni. Uno degli passaggi,
bada bene, non la soluzione. È uno dei vari tasselli che, messi assieme, ti permettono di creare un vino con un tuo stile. I lieviti selezionati, invece, standardizzano. Oltre a costare un sacco di soldi e oltre a creare dei problemi, a volte, di temperature troppo elevate, perché tu immetti milioni di lieviti in una vasca che diventa come una pentola a pressione, quindi poi devi tirar giù la temperatura, sprecare energia per raffreddare la vasca…

Insomma, una reazione a catena che non ha molto senso. Così hai detto addio ai lieviti selezionati?

Guarda, io non sono un talebano, non posso dirti che questi lieviti non li uso mai. Ho sempre in cantina, a inizio fermentazione, quel chilo, mezzo chilo di lieviti da parte: se ce n’è bisogno, li uso. Perché può capitare in certe annate che ce ne sia bisogno, soprattutto all’inizio.

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Per me “vino naturale” vuol dire tutto e niente. Ci sono quelli che ti dicono «io uso prodotti chimici, però in quantità limitata». È una stupidaggine. O li usi, o non li usi

Parliamo quindi del vino naturale. Come si fa a mantenere un buon livello di naturalezza senza diventare dei fanatici?

Per me “vino naturale” vuol dire tutto e niente. Ci sono quelli che ti dicono «io uso prodotti chimici, però in quantità limitata». È una stupidaggine. O li usi, o non li usi. Però bisogna dividere le due cose, cantina e vigna. Se facciamo un discorso agronomico, non puoi dire: in vigna non li uso, ma se c’è bisogno li uso. No. Se tu vuoi essere biologico non devi usarli mai. E in vigna puoi tranquillamente non farlo. Dire che sei costretto a usarli in determinate annate è una bugia. Bisogna ovviamente essere strutturati in azienda per riuscire a fare agricoltura biologica: bisogna avere la preparazione tecnica adeguata, bisogna poter affrontare la tempistica, quindi avere in azienda una quantità di persone che ti permetta di fare determinate operazioni con un timing ben preciso. Dopodiché, si può tranquillamente fare.

Devi accettare che ci siano annate diverse.

Certo. L’anno scorso è stata un’annata difficilissima, perché è stata piovosissima. Io trattavo una volta la settimana, avevo deciso di trattare a basse dosi di rame e zolfo molto frequentemente, perché rame e zolfo vengono dilavati durante le piogge, quindi se non tratti frequentemente rimani scoperto. E non ho preso nessuna malattia.

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L’idea dell’agricoltura biologica è quella di creare, nel tempo, delle piante più forti, più reattive alle condizioni estreme che stiamo vivendo sempre più spesso. Piante in grado di difendersi

Però ti sei fatto un mazzo così.

È vero. Ma le aziende che invece trattavano in modo sistemico, quindi con prodotti che entrano nella pianta e possono trattare a dieci, dodici giorni, cosa è successo a loro? È lo stesso discorso che abbiamo fatto per i concimi chimici: la pianta, scaduti quei dieci, dodici giorni, è completamente nuda, non è in grado di difendersi dagli attacchi esterni. Quindi, chi non poteva trattare nei tempi giusti, perché magari quel giorno pioveva (pioveva quasi tutti i giorni!) ha avuto delle malattie pazzesche.
L’idea dell’agricoltura biologica è quella di creare, nel tempo, delle piante più forti, ossia piante in grado di difendersi… non “da sé” perché sarebbe eccessivo, ma anche da sé dagli attacchi esterni. Questo è un concetto molto importante da comunicare: il fine dell’agricoltura biologica è quello di rendere le piante più reattive in condizioni estreme, perché stiamo avendo sempre più spesso condizioni estreme per via del cambiamento climatico, quindi o tanta pioggia o tanto secco.
E comunque il biologico, nel medio e lungo termine, ti fa risparmiare soldi e ti dà più qualità perché ti permette di avere un prodotto — se hai un gran terroir, ovviamente — che rappresenta molto più il territorio e ti permette di fare vino buono anche in annate difficili.

Di annate difficili parleremo, perché questa del 2014 è stata davvero memorabile. Ma prima mi dici come ti rapporti tu al territorio? Qui siamo in una regione che ha una tradizione e una risonanza enormi in ambito vinicolo. Fare vino qua non è come farlo in un podere sperduto di una regione non particolarmente eminente dal punto di vista vinicolo…

Questo è uno stimolo a fare vini sempre migliori, perché è appurato che questa zona è molto vocata alla viticoltura. Noi qui abbiamo la fortuna di essere in un’area particolarmente vocata al Sangiovese, che è una varietà che ti dà grandi soddisfazioni perché può dare vini di grande piacevolezza ma anche di grande carattere, cosa che non accade per esempio col Nebbiolo, una grandissima varietà che però dà vini longevi, tannici. Qui possiamo fare vini “facili” anche se complessi, oppure vini che puoi bere dopo 30 o 40 anni. È molto duttile come varietà.

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Un progetto ha bisogno di essere comunicato. Perché io qui posso dire quello che voglio, ma se poi la gente fuori queste cose non le sa, il vino non viene capito

Fra voi produttori del Chianti Classico c’è cooperazione?

C’è cooperazione fra chi sposa la medesima filosofia aziendale, che è poi anche una filosofia di vita.

Questo verbo sposare mi piace, perché è proprio l’idea che mi dai tu, quella di aver “sposato” il tuo mestiere. Quando ti ho visto la prima volta avevi le mani colore del vino, eri in piena vendemmia, non esistevi per il resto del mondo. Ma anche durante il resto dell’anno mi sa che hai pochi momenti in cui non sei preso dalla vigna, dalla cantina. Insomma, la sensazione è che il vino sia tutta la tua vita.

Sai, questo lavoro o lo ami o non riesci a farlo con l’impegno che ti richiede. Io mi considero una persona molto fortunata, innanzitutto perché l’azienda è mia e non ho dovuto comprarla, mi è piovuta dall’alto. Poi certo l’ho migliorata, l’ho potenziata, anzi, l’abbiamo potenziata, Benedetta ed io: quando siamo arrivati, Poggerino aveva cinque ettari di vigna, oggi ne ha dodici.
E poi sono fortunato anche per il lavoro che faccio. Se penso a un operaio che tutte le mattine deve rinchiudersi in una fabbrica senza luce… io sono qui, in un posto che è mio, in mezzo alla natura, in una delle regioni più belle d’Italia, in una zona incontaminata. Senza contare che il mio lavoro mi permette di girare il mondo.
È una cosa che faccio sempre di più, perché noi vendiamo il 90–95% per cento della nostra produzione all’estero. E anche questo è molto bello.

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Voi avete sempre avuto una clientela internazionale. Questo dipende dal fatto che qui, oltre alla vigna, c’è anche l’agriturismo, quindi avete molti ospiti stranieri?

Il discorso è complesso. In realtà il Chianti Classico è sempre stato visto come una zona che produce vini di qualità medio bassa, perché non dobbiamo dimenticare che è una zona molto vasta, lunga 80 km e larga 40, dove ci sono aziende che producono tremila bottiglie e altre che ne producono tre milioni. Il progetto qualitativo delle aziende grandissime non può essere tanto elevato, il vino prodotto è sempre stato, storicamente, un vino mediocre.
Ora le cose stanno un po’ cambiando, ma comunque l’immagine del Chianti Classico resta un po’ quella del vino non eccelso a prezzi contenuti. Ecco perché per noi di Poggerino è stato più facile andare all’estero. In passato vendevamo molto in Europa, ora si vende di più nei paesi extraeuropei, ma la cultura del bere buon vino è sempre stata più una prerogativa dell’estero che dell’Italia.

La regione d’Italia dove sono più seri sul vino secondo te qual è?

Piemonte e Toscana sono le due zone storiche.

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Nonostante quello che dicevi prima, ossia che la zona del Chianti è percepita come poco nobile, di basso prezzo? E poi perché, per la vecchia immagine del fiasco di paglia?

Sì, un po’ è quello, ma c’è dell’altro. Ti faccio l’esempio del Brunello, perché può essere utile mettere a confronto Montalcino col Chianti Classico.
Il progetto di Montalcino è nato da Jacopo Biondi Santi che voleva fare un vino al massimo livello qualitativo. Quindi basse rese, massima cura delle vigne, nessun utilizzo di uve bianche… che all’epoca, ricordiamolo, erano obbligatorie nel disciplinare del Chianti.

C’era un 10% di Trebbiano previsto. [Biondi Santi rinunciò alla DOC per essere libero di fare il suo vino solo col Sangiovese, senza quel 10% di Trebbiano – ndr].

Sì. Quindi Sangiovese in purezza. Questa è stata l’immagine che Montalcino ha dato al mondo. Poi che ci siano anche tanti Brunello mediocri è un altro discorso. Ve detto pure che Montalcino è una zona più piccola, circa un quinto del Chianti Classico, quindi più facile da gestire per quanto riguarda i flussi di vino.
Il Chianti Classico, invece, nasceva proprio con l’obiettivo della quantità, per cui si usava Canaiolo — che è una buona varietà ma è molto produttiva, dà vini leggeri — oltre a Trebbiano e Malvasia che danno dolcezza al vino. Erano vini molto aspri, perché coltivati con rese troppo alte. Allora, per contrastare quest’asprezza, questo “verde”, si aggiungeva il bianco. Ma è come dire «ho troppo colore, ci metto l’acqua», non è un discorso che puoi fare. E questa è l’immagine che noi abbiamo dato al mondo, vendendo milioni di fiaschi anche all’estero.
Ci abbiamo messo anni per riqualificarci. E laddove c’è stata una maggiore attenzione alla qualità, il processo è stato molto più veloce. Poi è vero che il turismo ha aiutato molto, perché tanti tedeschi, svizzeri, belgi, olandesi, sono venuti e vengono tuttora qui. Negli anni si sono aggiunti anche americani, australiani, canadesi, e adesso la nostra zona, per chi ha a cuore la qualità, è ritenuta zona di eccellenza.

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Il vino è moda. C’è fondamentalmente una grande ignoranza su come si fa il vino, moltissime persone che sono nel mondo del vino parlano di vino senza sapere di che cosa parlano

Quante bottiglie l’anno produce Poggerino?

Circa 60.000 bottiglie. È un’azienda medio-piccola, che io e Benedetta definiamo di grandezza “umana” perché a me, per esempio, permette di fare un po’ tutto: lavorare in cantina, lavorare in vigna, girare il mondo a diffondere la passione che ho per il vino. Sai, ora siamo conosciuti, abbiamo un brand piuttosto affermato in certi paesi, quindi il vino si vende abbastanza facilmente, ma per anni questo progetto ha avuto bisogno di essere comunicato. Perché io qui posso dire quello che voglio, ma se poi la gente fuori queste cose non le sa, il vino non viene capito.

E quindi cosa fai, quando vai in giro per il mondo?

Quando vado in giro per il mondo dai miei clienti, il mio lavoro non è tanto vendere il vino — ché quello lo vendono loro — ma comunicare cosa bevono, perché non bevono solo un vino ma proprio un progetto. Un progetto che sta nel biologico, nel territorio, nella storia di questo territorio.

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Ci sono aziende che spacciano certe cose per altre, e che vengono mitizzate dai loro “aedi” su Internet. Perché molto adesso lo fa Internet

Questo discorso sulla comunicazione m’interessa molto. La mia sensazione è che la cosa che interessa di meno a chi si occupa di vino sia proprio “comunicare” il vino. Il che è assurdo, perché bisognerebbe partire proprio da lì, sapere cos’hai nel bicchiere.
Secondo te, perché la comunicazione sul vino è ancora così carente e ammantata di fuffa qui in Italia, dove pure il vino è un prodotto importantissimo anche da un punto di vista economico?

In realtà la comunicazione in questi ultimi anni è molto cresciuta. Poi c’è la comunicazione per così dire reale, quella che faccio per esempio io che dico chiaro e tondo quello che faccio, e c’è la comunicazione commerciale, che è quella dei grandi gruppi che cavalcano spesso e volentieri la moda del momento. Perché il vino è moda. C’è fondamentalmente una grande ignoranza su come si fa il vino, moltissime persone che sono nel mondo del vino parlano di vino senza sapere di che cosa parlano. E questa ignoranza viene spesso sfruttata a proprio vantaggio da alcune aziende.

C’è anche una buona dose di malafede, dunque.

Sì, assolutamente. E poi ci sono aziende che spacciano certe cose per altre, e che vengono mitizzate dai loro aedi su Internet. Perché molto adesso lo fa Internet.

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Siamo riusciti a fare un vino semplice e al tempo stesso complesso. E questa è una delle cose più difficili da fare. È molto più facile fare le cose complicate che quelle semplici

Parliamo di voi. Perché è una bella storia, quella di Poggerino. Adesso, a cose fatte, può sembrare un percorso lineare, invece è stata una scelta continua, un progresso costante.
Il vostro mercato di riferimento è un mercato, come abbiamo detto, internazionale.Quest’anno siete stati premiati dalla rivista Wine Spectator [che, assieme a Wine Advocate, è la rivista più importante al mondo per il vino] con un 18° posto nella sua Top 100 dei migliori vini. Ci racconti com’è andata?

Noi abbiamo avuto per anni degli ottimi punteggi con Wine Spectator, però sempre in una fascia medio-alta, mai con una grossa visibilità. Quest’anno Bruce Anderson, il giornalista che ci ha valutato, è rimasto entusiasta del nostro vino e ha dato un gran punteggio al nostro Chianti Classico 2010, perché evidentemente è riuscito a leggere in questo vino un carattere, un qualcosa di più. Il nostro Chianti Classico non è un vino d’impatto, non ha né un aroma pazzesco, né una struttura pazzesca, né una morbidezza pazzesca. Però ha un grande equilibrio, una grande eleganza, una grande bevibilità.
È un vino semplice e al tempo stesso complesso. E questa è una delle cose più difficili da fare. È molto più facile fare le cose complicate che quelle semplici.

Come nella moda, in cui si dice che l’eleganza sia sottrazione.

Sì, come quando ascolti Mozart. Ti dici, beh, è una musica “semplice”… però vallo a fare.

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Anderson quindi ha capito questa cosa.

A quanto pare sì. Perché sai, di vini iper profumati, iper strutturati ce ne sono tantissimi al mondo. Ma un vino come questo rappresenta veramente la zona di Radda, una zona che produce vini eleganti, complessi. Anderson ha premiato proprio questo, dando al nostro Chianti Classico 2010 ben 93 punti.

wine_spectator_top100Un grandissimo punteggio.

Soprattutto riferito a quel vino lì. Perché ci sono vini che magari prendono 95, 96 punti, però su uno scaffale in America vengono venduti a 80, 90, 100 dollari. Mentre questo vino qui viene venduto a 25 dollari.

Diciamolo, questo!

Il nostro Chianti Classico, io lo dico sempre, è la nostra business card. È il nostro vino che va più in giro per il mondo, ne facciamo circa 40.000 bottiglie l’anno, quindi è un vino che deve avere una grande qualità ma anche una grande bevibilità, perché ovviamente le persone che lo bevono devono gradirlo. Non tutti sono in grado di bere certi vini, devi anche fare un vino “semplice”.

Che potere di controllo ha un produttore sul prezzo finale del vino? Penso al famoso discorso di Veronelli sul prezzo sorgente… Come fa il produttore a sapere quanto verrà ricaricato il suo vino in enoteca o al ristorante?

Più o meno lo sa, almeno per quanto riguarda le enoteche. Il ricarico è impressionante. Un vino che parte da qua a 1 viene rivenduto a 5, 10, 15. E non è controllabile nei ristoranti.
Nelle enoteche è più facile sapere quanto verrà ricaricato.

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Nel vino il ricarico è impressionante. Un vino che parte da qua a 1 viene rivenduto a 5, 10, 15. Nelle enoteche è più facile sapere quanto verrà ricaricato ma nei ristoranti non è controllabile

Ma ci sono dei friendly agreement fra te e chi vende il tuo vino?

No, perché è l’importatore a stabilire i ricarichi. E a cascata tutti gli altri.

Quindi magari l’accortezza può essere scegliere degli importatori che non speculino.

Diciamo che noi siamo abbastanza in grado di controllare il primo step di ricarico, cioè il prezzo che l’importatore fa ai suoi clienti. Questo ricarico cambia da stato a stato, da paese a paese, perché poi ci sono le tasse, il trasporto, e ogni paese ha la sua realtà. Poi, quando il vino viene acquistato dal cliente del nostro importatore — quindi il ristorante o l’enoteca — lì la cosa diventa incontrollabile.

Però il prezzo del vostro vino ha contato nella valutazione di Wine Spectator, perché pur essendo un vino così buono aveva un prezzo comunque contenuto.

Sì, ha contato, perché il criterio di valutazione per WS sono le enoteche: la rivista viene letta da gente che poi il vino deve andarlo a comprare, e fondamentalmente va in enoteca a comprarlo.

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E 25 dollari è un prezzo conveniente negli Stati Uniti?

Diciamo che, sul mercato americano, lo scaglione che va dai 20 ai 25-26 dollari è, in questo momento, un prezzo medio alto, perché negli ultimi anni la classe media è stata piuttosto tartassata, quindi questo è un buon prezzo ma non è economico. Il prezzo performance, in America, è sotto i 20 dollari. Se riesci a mettere il tuo vino a 19.99 dollari ottieni veramente una grande differenza nelle vendite.

Ci sono delle esigenze reali per i ricarichi? Tasse sugli alcolici o simili?

Per il ricarico ogni enoteca fa le sue valutazioni. Le tasse ce le hanno. E poi c’è tutta una problematica di affitti dei locali, che sono altissimi, senza contare il trasporto. Però posso dirti che il nostro Chianti Classico viene venduto a 50-60 dollari al ristorante. In Russia è lo stesso, quasi otto volte di più del prezzo originario. È allucinante, anche perché è un andamento esponenziale, cioè se io aumento anche solo un po’, l’importatore aumenta a sua volta, e così a ricasco fino al prezzo finale.

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Torniamo a Wine Spectator. Come avete preso la notizia di questo 18° posto?

È stata una bellissima sorpresa, perché deriva da un insieme di fattori. Ha influito, come dicevamo, il prezzo, poi la quantità di vino venduta in America. Per essere presa in considerazione, un’azienda deve aver venduto per un certo numero di anni un certo numero di casse. Noi vendiamo circa 15.000 bottiglie in belle enoteche e bei ristoranti di città importanti, e quindi questo è un premio anche ai nostri importatori, perché noi diamo a loro il nostro vino, ma poi sono loro che devono venderlo. E vendere il vino è una cosa molto complicata.
Poi c’è stato l’X Factor del vino ottenuto da monovitigno e fatto da un viticoltore — questo X Factor credo che cambi ogni anno…

Ma lo chiamano proprio così, X Factor?

Sì, lo chiamano così. Non voglio scopiazzare i reality show!

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Nella Formula Uno, se tu giri 5 centesimi di secondo più lento a giro, arrivi decimo. Nel vino è la stessa cosa. Quando arrivi a un livello di qualità molto alto, sono le piccole differenze che fanno le grandi differenze

Insomma, è come dire che il tuo vino ha quel quid.

Esattamente. E quest’anno era molto legato a questa faccenda del viticoltore e del monovitigno. Insomma, un vitigno massima espressione di un territorio.

E il fatto che tu, come viticoltore, sia anche l’enologo dell’azienda è stato considerato un valore aggiunto?

Sì, senz’altro. Io ho quest’idea che forse può essere un po’ estremista, un po’ sbagliata, ma penso che se si vuole veramente arrivare a un livello molto alto nella qualità del proprio vino, bisogna farselo da soli, oppure avere un enologo interno.
Un enologo che “sfarfalla”, per quanto possa essere bravo, inevitabilmente tende a standardizzare la metodologia di lavoro, e non riesce mai a cogliere veramente le piccole opportunità che un’annata ti dà per fare quel piccolo salto di qualità che poi è grande.
Io faccio sempre l’esempio della Formula Uno: nella Formula Uno, se tu giri 5 centesimi di secondo più lento a giro, arrivi decimo. Nel vino è la stessa cosa. Quando arrivi a un livello di qualità molto alto, sono le piccole differenze che fanno le grandi differenze.

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Il problema dei tappi è che noi facciamo tanto lavoro, in vigna e in cantina. Poi metti il vino in bottiglia. Lo assaggi dopo un anno, per dire, e su dieci bottiglie, se le assaggi attentamente, ti accorgi che sono dieci vini diversi

Mi dici cosa è successo quando è arrivata la notizia di questo 18° posto?

[Sorride] Eh… Sono entrato in quest’ufficio, mi sono seduto su questa sedia e… si è scatenato l’inferno! Decine di mail, da tutto il mondo, moltissima gente che voleva il nostro vino. Come sempre capita in questi casi, c’era anche tutta una serie di persone che lo voleva solo per fare soldi, non perché gli piacesse, visto che non sapeva niente di vino in generale e del nostro in particolare. Quelle persone noi le abbiamo scartate.
Avremmo potuto fare un sacco di soldi vendendo a prezzi altissimi, ma avremmo venduto solo una volta. Quindi abbiamo preferito premiare i nostri clienti, che per anni hanno comprato il nostro vino, e dare a loro l’opportunità di rafforzare ancora il nostro brand in determinati posti in giro per il mondo. Poi ovviamente abbiamo colto anche l’opportunità per acquisire alcuni nuovi clienti, pochi, che però hanno sposato la nostra filosofia aziendale, quindi hanno comprato anche altri vini oltre al Chianti Classico, hanno capito cosa facciamo e, di conseguenza, quando venderanno questo vino saranno anche in grado di spiegare che cos’è.
E poi ho viaggiato molto. È bello andare per il mondo a vedere chi beve i tuoi vini, ti dà anche uno stimolo in più per tornare a casa e fare vini sempre migliori. Per allargare i tuoi orizzonti. Perché se no, se stai sempre qui su queste colline, pure finisce che ti chiudi.

A proposito di apertura al nuovo, so che dalla scorsa primavera imbottigliate con una macchina nuova, usando dei tappi di nuova concezione. Quella dei tappi, come sappiamo, è una questione annosa.

Il problema dei tappi è che noi facciamo tanto lavoro, in vigna e in cantina. Poi metti il vino in bottiglia. Lo assaggi dopo un anno, per dire, e su dieci bottiglie, se le assaggi attentamente, ti accorgi che sono dieci vini diversi. Non mi riferisco al sapore di tappo, bada bene, quello è un problema grande però è in buona parte eliminabile, perché ormai ci sono delle tecnologie di laboratorio che ti permettono, prendendo dei campioni rappresentativi della partita di tappi che devi usare, di fare delle analisi e di capire se in quella partita lì avrai dei problemi gravi sul sapore e odore di tappo, e in che percentuale.

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Perché il problema sta già nel sughero, giusto?

A dare problemi è un fungo che si sviluppa durante il periodo di stagionatura della plancia, in condizioni di umidità. Quel problema lì, come ti dicevo, è abbastanza eliminabile. Il guaio del sughero, però, è che essendo un materiale vivo, può creare tutta un’altra serie di problematiche, tipo il tannino, perché anche il sughero ha il tannino e può capitare che lo ceda al vino.
Il tappo DIAM invece è un tappo costituito da una farina di sughero purificata, resa assolutamente inerte e legata con dei polimeri di origine naturale (il brevetto è segreto) che riproducono quella che è la porosità del tappo. Quindi il tappo ha la stessa elasticità e porosità di un tappo di sughero naturale, ma non rilascia nessuna componente nel vino. Tu puoi assaggiare quelle famose dieci bottiglie, dopo un anno o dopo dieci anni, e sono tutte uguali.
L’unica controindicazione è che, con questo tappo, passa meno ossigeno nel vino rispetto al sughero naturale. I tempi di affinamento sono più lenti, devi gestire il vino in modo da arrivare all’imbottigliamento con un vino già aperto, quasi pronto per essere bevuto o comunque, a livello aromatico, molto aperto.

Cioè devi scambiare con l’ossigeno prima di imbottigliare, durante la permanenza in botte?

Sì, devi cominciare a dare più ossigeno già in vinificazione, fare un travaso in più durante il periodo di affinamento in legno, poi farne un altro per dare un po’ più di ossigeno prima dell’imbottigliamento.

Dammi una buona notizia: è passata la mania della barrique?

Diciamo che in questa zona sta passando. In altre zone, per esempio Bolgheri, dove usano molto più Merlot e Cabernet – che sono due vitigni che “reggono” molto meglio il legno nuovo, il legno piccolo — la usano ancora, ma con ottimi risultati.

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Qui in Italia, nonostante la disoccupazione giovanile abbia toccato dei livelli spaventosi, trovare una persona giovane che abbia voglia di imparare è molto difficile

Voi a Poggerino cosa usate, acciaio?

No, qui usiamo legno: tutti i nostri vini sono affinati in legno. Sempre di più legno grande, perché quello che ho notato, soprattutto con il biologico, è che i miei vini sono sempre più un’espressione della terra, hanno il sapore della mia terra e sono sempre più allergici al legno nuovo. Il legno è fondamentale in cantina, dire «non uso più il legno» è la cosa più sbagliata, perché il legno ti permette di trasformare un buon vino in un grande vino.
Nell’acciaio, un buon vino resta un buon vino, anzi, magari diventa un vino medio. Il legno è dunque fondamentale. L’idea è quella di usare botti più grandi, dove c’è un minore scambio col legno però allo stesso tempo c’è un’ossigenazione che permette al vino di evolvere.

Quando dici “legno grande” parli di…?
Parlo di botti da 20-25 ettolitri, coadiuvate da tonneau da 500 litri. La botte preserva molto il frutto del vino, però dandogli meno ossigeno, perché le doghe sono molto più spesse e la superficie di contatto è molto minore [rispetto alla barrique, ndr] in virtù della grandezza. Il vino rimane un po’ più “contratto”, un po’ più tannico, se vogliamo dire così. Quindi hai da un lato il vantaggio di avere più frutto con un legno molto discreto, dall’altro però hai vini un po’ più “inchiodati”, un po’ meno evoluti.

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Che però affrontano meglio l’invecchiamento.

Sicuramente. Però parliamo anche di un Chianti Classico che dopo 18-20 mesi viene imbottigliato, fa un anno di affinamento in bottiglia e va sul mercato, non stiamo parlando di un Riserva [che “invecchia” di più, ndr].
Questo del passaggio al legno grande è un processo che sto affrontando molto lentamente. Non puoi dall’oggi al domani comprare tutte botti grandi, sarebbe impossibile anche da un punto di vista economico, e daresti poi troppo sapore di legno al vino perché avresti tutte botti nuove. Invece il tonneau dà un po’ più di legno nuovo, però il legno si ammorbidisce di più. La mia idea è lavorare con un 60% di botti e un 40% di tonneau.

Ma tu per capire queste cose fai degli esperimenti?

Sì. È un po’ il discorso che facevo prima: assaggio, ci penso, rifletto… Magari invece un enologo ti direbbe «fa’ così, così e così».

E il futuro di Poggerino come te lo immagini?

Mah… Sicuramente lo immagino sempre più alla ricerca della qualità, senza una particolare espansione: se avremo l’opportunità di acquisire altri due o tre ettari per arrivare a quindici ben venga, ma non m’immagino come un’azienda che fa più di 100.000 bottiglie. Anzi, 100.000 sono già troppe, mi starebbe bene 80, 90mila. Perché questa dimensione ti permette di avere un approccio umano, di avere un’attenzione personale a tutte le fasi della produzione, che è una cosa che amo. Io faccio un lavoro che mi diverte, per quanto faticoso possa essere.
Certo, come in tutti i lavori ci sono alti e bassi, magari hai dei giorni in cui dici «chi me lo fa fare?», oppure ti arriva la grandinata, oppure stai per vendemmiare e viene a piovere, e la qualità che era dieci già ti diventa otto, per dire. Ma quello fa parte del gioco.

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Secondo me ci sono ancora dei margini di miglioramento, proprio perché si può lavorare non più sul grosso ma sulle virgole

Però è un gioco che vale la pena di continuare a giocare.

Sicuramente. L’obiettivo è fare vini sempre migliori, e siamo in una zona che ci dà quest’opportunità. Io ho amici produttori che mettono lo stesso impegno che metto io nel fare il vino, però si trovano in zone molto meno vocate di questa e quindi fanno dei buoni vini ma non arrivano mai a fare dei grandi vini. Qui possiamo fare grandi vini. Secondo me ci sono ancora dei margini di miglioramento, proprio perché si può lavorare non più sul grosso ma sulle virgole.
In questi ultimi anni ho parecchio ridotto il mio lavoro in vigna, ancora ci lavoro ma sempre meno perché ho tante altre cose da fare. Siamo diventati più conosciuti, c’è tanta gente che ci viene a trovare da varie parti del mondo… [SORRIDE] ovviamente vengono tutti nel momento in cui c’è più lavoro in vigna, perché vengono nella bella stagione, non è che vengono a gennaio febbraio.

Ok, mandiamo un messaggio: se volete andare a trovare Piero Lanza, andateci a gennaio o febbraio che è anche un po’ più libero di chiacchierare.
Torniamo al futuro. Dicevi che l’obiettivo è fare vini sempre migliori.

Beh, sai, se vengono con la bella stagione almeno vedono cosa facciamo. Se vieni in inverno non è che vedi molto!
Comunque sì, fare vini sempre migliori e magari riuscire anche a venderli a un prezzo un po’ più alto. Diventare più conosciuti come azienda. E trovare anche dei collaboratori che siano in grado di lavorare ai livelli che sono necessari qui.

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Noi riceviamo continuamente mail di persone che vogliono fare gli enologi, che vogliono fare i cantinieri o che vogliono lavorare in ufficio, ma il contadino non lo vuole fare nessuno. O almeno nessun italiano

Ti volevo chiedere proprio questo. Tu che sei così abituato a seguire personalmente ogni singola fase della produzione, dalla vigna alla cantina, riesci poi a demandare ad altri?

Imparare a farlo è fondamentale. Il problema è che qui in Italia, nonostante la disoccupazione giovanile abbia toccato dei livelli spaventosi, trovare una persona giovane che abbia voglia di imparare è molto difficile.

Perché la fatica è molta?

La fatica è tanta, bisogna fare molti sacrifici. Ma alla fin fine è proprio difficile trovare gente che voglia lavorare la terra. Noi riceviamo continuamente mail di persone che vogliono fare gli enologi, che vogliono fare i cantinieri (perché in estate ti metti in cantina, al fresco) o che vogliono lavorare in ufficio, ma il contadino non lo vuole fare nessuno. O almeno nessun italiano.

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Come sarà quest’annata? Abbiamo avuto un inverno incredibilmente piovoso, una primavera e un’estate assurde…

Sì, è un’annata molto impegnativa. L’inverno è stato piovoso, però molto caldo, e già non è una premessa buona perché gli inverni caldi non fanno tabula rasa di spore e di funghi che ti possono creare dei problemi poi in primavera — non “disinfettano”, insomma.
Anche la primavera è stata piovosa e abbiamo dovuto fare interventi molto frequenti sulle piante con rame e zolfo per via della dilavazione causata dalla pioggia. Il rischio funghi era altissimo. Senza contare che le piante crescevano molto velocemente e, dato che noi qui non facciamo topping [la pratica di “cimare” che origina una sorta di siepe, ndr] ma intrecciamo i tralci, dovevamo farlo in fretta, per non far ricadere i tralci stessi.
A luglio, poi, è piovuto dieci volte di più della media del periodo. Questo ti porta ad avere grappoli con acini molto grossi, che hanno una scarsa concentrazione di zuccheri. Conta però anche il tipo di cloni che adotti in vigna. Noi abbiamo selezionato dei cloni che garantiscono la qualità piuttosto che la quantità, e le piante hanno reagito abbastanza bene.

Che ansia però!

E non ti ho ancora detto della Drosophila Suzukii… Quest’anno abbiamo avuto anche quella, in regione. È un insetto che fa dei buchi negli acini che creano acescenza [il vino “va in aceto”, ndr] e l’infezione è molto contagiosa. Bisogna selezionare attentamente i grappoli durante la vendemmia, scartando i grappoli contaminati.

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E quindi vendemmiare a mano, come fate voi, vi ha aiutato.

Anche il caldo che c’è stato durante il giorno, che ha asciugato, e l’escursione termica durante la notte. C’è andata bene. Il tempo a settembre, con noi, è stato clemente.

Altrove invece è stato terribile, qui in Toscana: grandinate, una tromba d’aria…

Non ne parliamo. Io ho amici viticoltori scrupolosi e attentissimi alla qualità che hanno perso tutto. Una cosa tremenda, non sono stati distrutti solo i grappoli, ma proprio le piante, addirittura i pali di sostegno. A noi qui a Poggerino è andata bene, abbiamo scampato la grandine e, dalla seconda metà di settembre, il tempo è stato buono, con temperature elevate che ci hanno permesso di recuperare un’annata altrimenti tragica. Le uve che abbiamo portato in cantina erano ottime. Ora aspettiamo e vediamo come va.

Il mosto è in fermentazione tumultuosa?

Sì, non è ancora finita. Quindi incrociamo le dita e speriamo bene! In fondo anche l’anno scorso era stata una bella sfida, come ti ho detto prima.
[Al momento dell’intervista la fermentazione era in quella fase, ora è iniziata la fermentazione lenta, ndr]

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Sono abbastanza contrario all’atteggiamento, che gira molto suoi blog, di totale avversione per le solfitazioni, perché anche questa è una moda

E avete avuto una cattiva annata?

Al contrario, per noi a Poggerino è stata un’ottima annata. Io la considero un’annata spartiacque: chi ha lavorato bene ha fatto dei grandi vini, chi ha lavorato male ha fatto dei disastri. Insomma, nel 2013 non ci sono vini così così: o sono vini molto buoni, o sono vini davvero mediocri.
Quest’anno, grandine a parte, il discorso è stato lo stesso: la cura della vigna, la reattività e la tempestività dei viticoltori sono state premiate. E si è visto, una volta di più, che laddove il vitigno è veramente vocato, legato al territorio, affronta meglio le avversità.

E quindi torniamo al discorso che facevi prima, sul valore aggiunto del biologico in vigna.

Esattamente. Però volevo dirti un’altra cosa riguardo la cantina, perché abbiamo lasciato il discorso in sospeso: io in cantina uso la solforosa. E sono abbastanza contrario all’atteggiamento — che gira molto sui blog — di totale avversione per le solfitazioni, perché anche questa è una moda. Io sono ovviamente contrario a usare una dose eccessiva di solforosa nei vini. La uso in vinificazione perché, facendo fermentazione coi lieviti spontanei, vedo che una bassa dose di solforosa indebolisce i lieviti cattivi e dà più spazio a quelli buoni. Non usarla è pericoloso: ti può andare bene, ma ti assumi dei rischi pazzeschi. E noi in quest’azienda ci viviamo col lavoro che facciamo, non è che giochiamo.

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Non te la puoi rischiare per fare il duro e puro.

No. Infatti, oltre alla piccola quantità in vinificazione, aggiungo piccolissime dosi di solforosa durante il periodo di affinamento, perché è un antiossidante che protegge e allunga la vita del vino. E ne uso un’ulteriore piccola dose prima dell’imbottigliamento.

Insomma, non sei un “antisolfitazionista” integrale.

Assolutamente no. Io penso che i vini senza solforosa possono avere una grandissima beva nel breve termine, ma hanno meno longevità e, spesso e volentieri, anche problemi di lieviti brettanomyces [il cosiddetto “brett”, ndr].

Che sarebbero?

Sono lieviti che danno al vino odori di cuoio, di lana bagnata, di pollaio nei casi più estremi. E allora è inutile stare a fare tanti discorsi sul territorio, sui profumi, sulla tipicità se poi mi fai un vino che sa di brett. Pensa che alcuni di questi fanatici pseudo intenditori di vino che imperversano in rete lo spacciano addirittura come terroir! Mentre la verità è che questi lieviti producono delle sostanze che alla fine coprono i profumi del vino.

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Senza biologico, non soltanto nella viticoltura ma anche nell’agricoltura in generale, non vedo futuro

Forse qualcuno ha esagerato, nel tempo, con l’uso della solforosa. A volte ti capitano vini, anche di un certo costo, che al primo sorso aggrediscono proprio lo stomaco. E allora poi ti viene anche spontaneo schierarti contro le solfitazioni.

Sì, però demonizzarle secondo me è un errore. L’integralismo non è mai un buon atteggiamento.

Io ti ho conosciuto durante una vendemmia, vengo a Poggerino da anni, ho visto come lavori: gli sforzi che fai per la qualità, la genuinità, l’espressione del territorio nei tuoi vini. Però non ti schieri con la “naturalezza” a tutti costi, quella che va molto di moda adesso e che ha tanti aedi sul web. Credi che si riuscirà mai a uscire da questa dialettica e a trovare una giusta sintesi? Come te lo immagini il futuro della viticultura?

Io non vedo un futuro per l’agricoltura — non parlo solo della viticoltura, ma proprio dell’agricoltura in generale — che non sia biologico, nei prossimi vent’anni. Anche in viticoltura il biologico prenderà sempre più piede. Per necessità.
Purtroppo, in questo periodo, anche a causa della crisi economica, tante aziende hanno difficoltà a vendere vino, o se lo vendono lo vendono a prezzi sempre più bassi, e credono, facendo agricoltura convenzionale, di risparmiare. Ma questo è un discorso miope. Nel medio e lungo termine l’economia tornerà a crescere. E ci sono tante aziende, anche grandi, che adesso sono biologiche. Sono convinto che faranno da apripista ad altre aziende grandi per passare al biologico.

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Questa è una cosa che non si dice, ma tutti i prodotti che si danno in vigna passano poi nel vino, vanno nel fegato, si accumulano. E negli anni ne prendi tanti. Nessuno ha ancora indagato su cosa ti fanno tutte queste sostanze messe assieme, ma sarà il caso di farlo

Bisogna insomma sfatare questo mito che il biologico lo puoi fare solo nell’orticello di casa?

Sai, anni fa ti dicevano «Hai solo un ettaro, grazie che fai il biologico. Io ne ho dieci!».
Ora chi ha dieci ettari e fa il biologico si sente dire «Per te è facile, io di ettari ne ho cento!».
Insomma, le cose pian piano vanno avanti. A livello commerciale è una cosa sempre più forte. E questo può essere un buon incentivo, anche se, secondo me, non è il punto di partenza migliore per fare il biologico. Ma se serve, ben venga.
Io il futuro dell’agricoltura italiana lo vedo tutto, o in buona parte, di aziende biologiche. Sono positivo da questo punto di vista. Anche perché non fare il biologico sta portando a un impoverimento dei terreni che poi comporta una diminuzione enorme delle rese.
Tu dici «io non posso spendere più di 10». Ma se poi, spendendo 10, raccogli 3? Ti conviene? Non è meglio spendere 20 e raccogliere 10?

Quindi forse si allargherà un po’ la forbice tra il discorso della vigna e quello della cantina?

È probabile. Però ti assicuro che già riuscire a non inquinare la terra è tanto.
Io sono convinto che questa terra sia mia solo su un pezzo di carta, in realtà la terra è di tutti. E allora noi che facciamo questo lavoro abbiamo la responsabilità, verso chi verrà dopo di noi, di inquinare il meno possibile. Non avere prodotti di sintesi nel vino è già un passo fondamentale. Questa è una cosa che non si dice, ma tutti i prodotti che si danno in vigna passano poi nel vino. Certo, sono tutti sotto la soglia. Ma l’altro giorno parlavo col tecnico di un laboratorio molto all’avanguardia e lui mi diceva che tutti questi prodotti, bevendo, vanno nel fegato, si accumulano. E negli anni ne prendi tanti.
Nessuno ha ancora indagato su cosa ti fanno tutte queste sostanze messe assieme, ma sarà il caso di farlo, perché si crea una sinergia: uno più uno non fa due, fa cinque.

* * *

Mi rendo conto che abbiamo parlato moltissimo. Capita sempre così con Piero, quando si tratta di vino, non c’è curiosità che non sia felice di soddisfare. Fin da quando venni qui la prima volta a vendemmiare e mi procurai uno strappo alla schiena che mi semi-paralizzò, ma lui mi invitava lo stesso ad arrampicarmi sulle vasche in fermentazione — fra le grida di Benedetta che temeva finissi a mollo nella tumultuosa.
È veramente un’azienda a dimensione umana, Poggerino. E il vino che produce, oltre a essere espressione del territorio, esprime perfettamente la personalità di questo vignaiolo che aveva cominciato quasi per caso, solo per “scappottarsi” il greco e il latino al liceo.
Finissero tutti così quelli che non vogliono studiare!

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  1. Bellissima intervista! Ancora piú bella l'immagine della mano operosa, vale piú di mille parole ed è forse più preziosa di qualsiasi altra cosa sia di moda o ricercata al giorno d'oggi.

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