A Drop In The Ocean – Sergio Romagnoli

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Quando cresci in una piccola città, di quelle che “ci conosciamo tutti”, che tu lo voglia o meno appartieni a una narrazione collettiva. Fatta di luoghi condivisi, di sapori, di luci, di scorci, della tipica sonorità di un dialetto, di espressioni peculiari, di mitologia del territorio, di personaggi familiari, talvolta di macchiette, più raramente di piccoli/grandi eroi.

Nella città in cui sono nato, Jesi, Sergio Romagnoli faceva parte della categoria degli eroi. Era un personaggio fuori dal comune, lui. Viaggiava molto, faceva volontariato, era stato in Africa, ma aveva anche fatto scoprire ai suoi concittadini le meraviglie di un territorio familiare che stava proprio sotto al loro naso. E si batteva per difenderle, quelle meraviglie.
Sergio aveva il fascino esotico di un esploratore. Non era un fotografo nel senso stretto del termine ma aveva “l’occhio” del fotografo e lo utilizzava per studiare la realtà, l’uomo e la natura, riuscendo a raccontare attraverso le migliaia di scatti che faceva molto di più di quel che inquadrava l’obiettivo.
Vent’anni fa Sergio è stato ucciso durante uno dei suoi viaggi. Aveva 37 anni. Si parlò di rapina ma nella vicenda i lati oscuri sono ancora molti.

Proprio su Romagnoli esce in questi giorni un volume intitolato A Drop In The Ocean, pubblicato da Éditions Du Lic, una casa editrice indipendente norvegese, ma curato da due giovani fotografi italiani che qui su Frizzifrizzi conosciamo già da tempo.

Del libro, e del lavoro di ricerca che hanno fatto selezionando foto degli anni ’70 e ’80 scattate da Romagnoli, alternate a foto di oggetti appartenuti a lui, ne parlo con Milo Montelli, jesino anche lui e a sua volta editore indipendente con la sua Skinnerboox, che con Alessandro Calabrese ha curato il volume.

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Cominciamo dall’inizio. Chi era Sergio Romagnoli?

Non ho mai conosciuto Sergio Romagnoli di persona. Quando è morto, il 21 Agosto del 1994, io avevo 12 anni. Ricordo il volto colmo di angoscia di mio padre quando lo seppe, e anche oggi, a tanti anni di distanza, rivedo nei suoi occhi lo stesso dolore. Ricordo un’aura di magia quando a casa mia si parlava lui.
Sergio è stato ucciso in circostanze ancora non del tutto chiare nell’isola di Sao Tomè, dove si trovava con sua moglie per svolgere attività di volontariato a favore di bambini non vedenti in un orfanotrofio. Non era la prima volta che si recava in Africa, ma quella volta lo aveva fatto in un momento tragico della sua vita, a seguito della morte di suo figlio, scomparso dopo una grave malattia all’età di appena un anno.
Sergio è stato professore di Scienze Naturali e Geografia, un appassionato naturalista e fotografo, un viaggiatore e curioso osservatore del mondo. È stato primo consigliere dei Verdi nella nostra piccola Jesi, si è battuto per documentare e denunciare lo stato di cattiva salute del fiume Esino, è stato un fervente antimilitarista, ideatore e sostenitore di molti progetti a salvaguardia del territorio e dei più deboli.
È stato per molti un fratello, un padre, un figlio.

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Come mai l’idea di curare una pubblicazione su di lui?

Con Alessandro Calabrese abbiamo pensato a questa cosa, di lavorare su un autore che non aveva la pretesa di essere un autore…
Facendo un editing tra i suoi album ci siamo accorti che c’era un potenziale enorme. Abbiamo trovato immagini molto contemporanee, come estetica.
In un momento in cui tutti i fotografi vogliono o cercano di fare un libro (noi compresi) ci piaceva l’idea di curare un volume sulla purezza dell’atto fotografico, purezza che Sergio indubbiamente aveva.

Tu e Alessandro lavorate insieme già da tempo col collettivo Luoghicomuni, giusto?

Sì, Luoghicomuni è stata la nostra prima collaborazione ufficiale.
Poi io ho curato il suo primo libro, Thoreau, pubblicato da me con Skinnerboox.
Ma prima di tutto io e Alessandro siamo amici, ci incontriamo spesso e abbiamo un confronto continuo su ogni cosa.

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Che tipo di lavoro avete fatto sul materiale fotografico di Romagnoli?

Abbiamo “scartabellato” come degli ossessi tra i suoi album.
Abbiamo fotografato alcuni oggetti appartenuti a lui.
Poi abbiamo combinato il tutto, lavorando al layout finale con l’editore.

La famiglia di Sergio che tipo di reazione ha avuto a questo progetto?

Sono stato in contatto soprattutto con la sorella di Sergio, Doriana. È stata da subito molto disponibile e mi ha fornito molto materiale; abbiamo collaborato a strettissimo contatto e la sua presenza è stata fondamentale per comprendere a pieno alcuni aspetti fondamentali della vita di Sergio.
Credo che Doriana sia molto contenta del risultato anche se ovviamente per lei c’è un coinvolgimento emotivo troppo profondo.

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E come mai la decisione di pubblicare con una casa editrice norvegese e non italiana?

L’unico editore italiano a cui l’ho proposto non era interessato.
Conoscevo questa casa editrice per la qualità dei loro libri. Stampano in una delle tipografie migliori d’Europa, la Optimal Media di Berlino.
Abbiamo proposto a loro il progetto anche un po’ per sfida dato che finora avevano pubblicato volumi anche molto diversi tra loro.
L’editore, Nicholas McLean, si è dimostrato molto interessato fin dall’inizio. Ne abbiamo parlato per qualche tempo e nel giro di poco l’abbiamo stampato, anche perché il libro era praticamente pronto.

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Sia tu che Alessandro nascete come fotografi, tu poi hai aperto una casa editrice indipendente. Insieme avete prodotto questo libro “ibrido“ utilizzando materiale già esistente — le foto di Sergio Romagnoli — e fotografando, come mi hai raccontato, oggetti appartenenti a lui, in qualche modo “tessendo” una narrazione.
Quest’esperienza sarà l’inizio di altri progetti che seguiranno questa traccia? Lavorerete insieme ad altre pubblicazioni?

Io e Alessandro, come ti ho raccontato prima, collaboriamo insieme già tempo. In questo libro si sono concentrate e sintetizzate le due nostre diverse “tendenze”: lui sta proseguendo il suo percorso di autore, fatto di molto studio e ricerca non solo fotografica ma in qualche modo anche “filosofica”; io invece mi sto concentrando sul lavoro di altri perché mi interessa di più e mi sento più a mio agio in questi panni… di editor? Editore?
Diciamo che è in queste vesti che ho trovato la mia pace.

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