Sangiovese di Romagna: la riserva storica, identità condivisa

Ma quanti ostacoli
e sofferenze e poi
sconforti e lacrime
per diventare noi
veramente noi

Lucio Battisti, Amarsi un po’, 1977

È il 1977, l’Italia canticchia Amarsi un po’ di Lucio Battisti e alla Fattoria Paradiso accantonano, con grande seguito mediatico, cinquemila bottiglie di Vigna delle Lepri in una antica nevaia per dimostrare al mondo che il sangiovese romagnolo poteva anche essere un vino longevo.

Quando nel 1985 la nevaia fu riaperta Sandro Pertini volle il Vigna delle Lepri per un pranzo ufficiale con Ronald Reagan al Quirinale. L’evento, ripreso dalla RAI, sancirà la nascita della tipologia sangiovese riserva.
È così che la Romagna perde la sua “innocenza” e si avvia a diventare un territorio del vino. Oneri e onori. Soprattutto una strada lunga e difficile, piena di trappole e inciampi, affrontata con l’ingenuità che solo chi ha tutta la vita davanti può permettersi.

A parlare seriamente di qualità fino a qui erano stati in pochissimi, la famiglia Pezzi della Fattoria Paradiso, la famiglia Ravaioli a Cusercoli e quel matto di Giuseppe Nicolucci, vignaiolo caparbio e ostinato a Predappio Alta, un uomo di passioni, un carattere forte e un amore sconfinato per la Romagna. Il suo sangiovese Dal Pré è ancora oggi un vino emozionante.

Gli anni ’70 finirono così, diciamo che non successe niente che non fosse già successo e di vino nelle cronache romagnole quasi non si parlava.
Ogni tanto qualche iniziativa del vulcanico Alteo Dolcini animava le piazze, ma al vino romagnolo, diciamo la verità, bastarono le parole. I primi fatti veri arrivano nei primi anni ’80 quando un intellettuale romano, Gian Vittorio Baldi, cominciò a produrre dei sangiovese in una tenuta tra Modigliana e Brisighella.

Nascevano così i mitici Ronchi, dei vini sottili e pieni di energia che hanno attraversato il tempo senza subirne mai l’usura. Erano vini fuori dalle mode, coraggiosi, vestiti con delle etichette bellissime firmate dal pittore Tano Dal Monte.
In Romagna nulla sarebbe più stato come prima. L’esperienza di Castelluccio era però arrivata troppo presto e i romagnoli, che le cose astratte le maneggiano con poca disinvoltura, non capirono la lezione di stile e linguaggio.

Gli anni ’90 hanno visto un fiorire di aziende, una febbre del vino che ha travolto tutto e tutti guidata da una pattuglia di guru toscani, gli enologi che dovevano far miracoli e invece fecero vini corpulenti e pesanti, incapaci di sfumature e delle tensioni minerali così care al sangiovese. Ci sono voluti altri dieci anni per recuperare lo stile territoriale dei vini, dieci anni di un anonimato che ha relegato la Romagna in fondo ad ogni classifica. È una storia vera e propria che passa per mode, ripensamenti, errori e resurrezioni. Una storia con una trama che attraversa famiglie, campi, boschi, sogni, fallimenti. E tante persone, il loro modo di essere e di pensare.

Questa storia oggi è possibile leggerla nelle bottiglie perché lì è chiara e precisa come non mai. Mica è facile però, perché vanno scovate una ad una, nelle cantine private, nelle piccole riserve “sopravvissute” nelle aziende. Sono rarità, e mettere insieme un racconto diventa complicato. Per questo, tre anni fa, insieme al Comune di Bertinoro e al Consorzio dei Produttori di Bertinoro abbiamo deciso di accantonare ogni anno 600-700 bottiglie da tutta la Romagna, per creare la possibilità a chi verrà dopo di noi di rileggere la storia del territorio, il viaggio verso l’identità, che oggi è diventato finalmente interessante.

Giorgio Melandri

È il 1977, zio Franco — lo zio bello, capellone barbuto con i jeans un po’ sdruciti comprati in un mercatino dell’usato a Napoli — canticchia Amarsi un po’ di Lucio Battisti con la sua vocina delicata. Rocky ha vinto l’Oscar come miglior film, la RAI ha appena iniziato a trasmettere a colori, con un ritardo di una decina d’anni rispetto agli altri paesi europei.

Io sono una bimba calabrese sveglia e riccia, con la pelle chiara e le guance rosa, ma già imbronciata per la recente “comparsa” di un fratellino. In sottofondo sento già parlare con ansia di Brigate Rosse e con rabbia di scandali politici. Il Partito Radicale chiede l’imputazione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone per l’affare Lockheed. Osservo mamma e zie nei loro orrendi pantaloni a zampa, ciabattare con quei loro tacconi di legno e zeppe sul parquet a listarelle lisce e brillanti delle nuova casa. Quei pantaloni li hanno comprati perfino a me, ci sono le foto a prova, ma non le mostrerò mai a nessuno.

Cos’è l’Emilia Romagna non lo so bene, sento dire però che c’è andato a studiare zio Luigi, detto Gigino, il fratello di mia madre, farà lo scienziato lui. Prima ingegneria elettronica a Bologna e poi chissà, negli Stati Uniti magari. Nel 1985 di anni ne ho 11 ed in TV vedo lo faccia schietta del Presidente Pertini, che prima aveva fatto il partigiano, ricevere quello americano, di Presidente, quello che prima aveva fatto l’attore.
Attorno a me sono tutte vestite di nero, niente teschi o borchie, non è per la moda punk, quella qui in Calabria non è mai arrivata; sono in lutto, zio Luigi è morto e nessuno sa spiegarmi perché.

In Romagna ci sono stata in gita scolastica: l’acquario di Riccione, l’Italia in miniatura e poi su su fino alla Repubblica di San Marino, non sarà Italia ma certo pare un tutt’uno con la Romagna. Cose da bimbi però, a me non interessano più molto, in autobus passo il tempo sfogliando i miei giornali di moda, osservo come sono vestiti gli altri, catalogo mentalmente. E voglio essere diversa, non sarò mai paninara io!

Nel 1988 io e la mia famiglia andiamo a vivere a Bologna, sulle prime la odio, odio la scuola e i miei compagni di classe e anche i miei genitori che mi ci hanno portata senza chiedere il mio parere. Però almeno a Bologna posso andare in giro con quella maglia fuxia di Moschino che ha due enormi fiori di plastica sulle maniche o con le scarpe stringate color oro, e nessuno mi guarda o quasi.

La Romagna entra definitivamente nella mia vita nel 1991, attraverso le parole di Leonardo, nuovo compagno di banco e amico, e ci entra anche il suo amato sangiovese di Romagna. Per Leo, Il Vino! E non ammette repliche. Parte della sua famiglia arriva da Santarcangelo da dove pare derivi il nome del vitigno: “sangue di Giove”, in quanto proveniente dal Monte Giove nei pressi di Santarcangelo di Romagna per l’appunto.

Poi vennero i fidanzati romagnoli, ben due ma non in contemporanea, e le gite nell’entroterra. E poi più nulla.

Di Romagna e sangiovese per qualche anno non ne ho più visto, parlato, bevuto, finché — non so più manco come e perché — nel novembre 2012 sono stata invitata ad Enologica ed ho incontrato Giorgio Melandri, che conosce, ama e promuove la sua terra e i suoi prodotti come pochi e che insieme al Consorzio dei produttori di Bertinoro e al Comune di Bertinoro lavora a preservarne l’identità per le prossime generazioni.

Perché la storia dell’identità romagnola passa anche per le bottiglie di sangiovese prodotte e riposte lì nei sotterranei di quella riserva, nella prima riserva storica pubblica d’Italia.

Lo avrete capito anche voi, le stagioni della mia vita, delle vostre vite, della moda, delle mode, della terra, della Romagna, del sangiovese procedono costantemente in parallelo. Non si può leggere e capire una cosa senza tener sempre bene in mente l’altra…

Francesca Arcuri

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