Una torrida giornata milanese di qualche anno fa. Sono seduto davanti a una scrivania a chiacchierare con la pr e responsabile dell’ufficio stampa di un’azienda, poi diventata una cara amica. A un certo punto parliamo delle giornaliste delle riviste patinate — erano i tempi in cui la battaglia web vs. carta infuriava, le fashion blogger erano la croce rossa contro cui sparare e le “vecchie giornaliste” dovevano ancora dichiarare la resa (mai formalmente dichiarata, com’è ovvio aspettarsi) e trasformarsi anche loro in prezzemoline presenzialiste e ipersocial, adepte della cultura selfie, facili alle tentazioni della cel(w)ebrità.
La pr futura amica mi racconta un episodio in particolare che mi è rimasto impresso.
«Ma lo sai che mi è capitata una di un magazine femminile che mi ha mandato una mail per chiedermi chi fosse Shepard Fairey e cosa fosse Obey?»
«Perché lei google non ce l’ha?» chiedo io, meravigliato.
«Questo per farti capire come lavorano. Voleva un comunicato stampa su Obey…», aggiunse lei.
Per la cronaca: parliamo di uno street artist di cui i giornali — pure quelli non specializzati — parlano da vent’anni! Uno che nel 2008, quindi poco prima dell’aneddoto che ho riportato qua sopra, ha disegnato il poster per la campagna di Obama.
Non so chi fosse quella giornalista e non so se ha poi imparato a usare Google ed “emanciparsi” dai comunicati stampa. Comunque a lei — e a chiunque conosca o non conosca Shepard Fairey — consiglio questo bel, piccolo documentario realizzato dallo skater e filmmaker americano Brett Novak.