Il minotauro, gli specchi, il catechismo, l’amore

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Ho sentito parlare per la prima volta di Gesù da mia zia Catia, la sorella più giovane di mia madre, quand’ero in prima elementare. Lei aveva 15 anni e io di tanto in tanto andavo a casa sua a fare i compiti e a sbirciare “quel che facevano le adolescenti” e le uniche adolescenti che conoscevo, all’epoca, erano lei e le sue due amiche Romana e Anna. Io i miei compiti li finivo presto, poi me ne stavo lì a fare il “valletto”, il figurante ignaro, mentre loro parlavano dei Duran Duran, staccavano i poster che trovavano su Cioè o su Tutto (te lo ricordi, Tutto?), ridevano e arrossivano per cose che non capivo.

Sia Catia che Anna e Romana cantavano e suonavano la chitarra in chiesa e quando dissero che il catechismo era la “cosa più figa del mondo” non poteva che essere così quindi un giorno andai dai miei, atei convinti, e chiesi loro se potevo fare il catechismo. Mi avrebbe accompagnato Catia, che nel frattempo mi aveva pure regalato un vecchio vangelo tascabile, tutto consumato e pieno di pagine ingiallite scritte fitte fitte.

Il mio primo giorno di catechismo coincise con una domenica assolata. Avevo con me solo una penna, un quaderno a quadretti e il vangelo. Entrai intimidito e imbarazzato in un’aula allestita nella soffitta di un edificio proprio davanti alla chiesa. Al piano terra c’era pure un bar, dove i vecchi democristiani giocavano a carte e bevevano “paccatelli” (mezzo vino e mezza acqua) e i ragazzini andavano a comprare le “cingomme”, il ghiacciolo Sammontana (mentre al bar centrale c’erano gli Algida e gli Eldorado e nel circoletto comunista, se non ricordo male, i Sanson) o a giocare al flipper con le 200 Lire.

Nella soffitta c’erano già molti della mia classe ma a scuola non ne avevamo mai parlato del catechismo — a quell’età, dopotutto, durante la ricreazione mica parli di Dio: giochi ad “acchiapparella” o a filetto disegnando la griglia sui muretti con le foglie, conosci a memoria le sigle dei cartoni e cerchi di imitare meglio possibile una mitragliatrice.
La catechista era serissima e con lo sguardo spiritato, la voce roca da fumatrice. Sapeva chi ero, sapeva che ero figlio di “gente senzadio” e perfino comunista e avermi lì, per lei, era una vittoria. Che però durò poco. La mia prima volta al catechismo era guarda caso l’ultima domenica di lezione prima dell’estate. Poi niente. Era come salire in treno alla penultima fermata: non vale neanche la pena di mettersi a chiacchierare col vicino di posto.

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Durante l’estate mi affezionai al vangelo. Me lo portavo dappertutto e ogni tanto ne leggevo un pezzo. Mi piacevano da matti le note, e tutti quei nomi strambi. Feci pure una mia speciale classifica degli evangelisti. Primo Giovanni. Marco ultimo perché era anche il nome del mio miglior amico ma lui voleva essere primo in tutto e anche se quella “classifica” era ultrasegreta non volevo dargli la soddisfazione.
Quell’estate scoprii pure che mi piacevano le femmine perché le due gemelle che venivano in classe con me e che avevo visto anche lassù, nella soffitta del catechismo, mi mancavano da morire e non vedevo l’ora che ricominciasse la scuola per rivederle. E che ricominciasse il catechismo. Che insieme alla messa era come avere un giorno extra per stare insieme a loro.

Fu così che cominciai frequentare l’ambiente cattolico. Colpa di quella prima, gemellare infatuazione infantile e di un vangelo che col senno di poi credo mi piacesse in quanto oggetto libro, consumato quindi ancor più prezioso e “da grandi”. Se mio padre mi avesse regalato la sua copia del Capitale probabilmente sarebbe stato lo stesso.

Quindi per un po’ ogni domenica mi vestivo bene, mi facevo accompagnare davanti alla chiesa dai miei, che la prendevano affettuosamente e, immagino, tra loro, scherzosamente.
Feci anche la comunione e più tardi, con meno convinzione, la cresima (le gemelle, con cui nel frattempo mi ero fidanzato ufficialmente, prima con una e poi con l’altra e poi di nuovo con la prima, alle medie erano passate al “modello calciatore”; in realtà tutte quante erano passate al modello calciatore e per me non ci fu più trippa per gatti: il mio apice di conquistatore fu decisamente tra i sei e gli undici anni, prima che uno di prima media si calasse i pantaloni davanti alla mia fidanzatina un pomeriggio che io era a casa con la febbre e il mio miglior amico, l’ultimo nella classifica degli evangelisti, mi telefonò per raccontarmi l’accaduto e assicurarmi che quella cosa lì dei pantaloni calati faceva decadere automaticamente i miei diritti su di lei).

In terza media, da bravo secchione con la mania per i computer, svariati tentativi di programmare in basic un database che catalogasse tutti i libri che avevamo in casa, la scrivania piena di atlanti e carte geografiche, manuali su astronomia, mineralogia, informatica, impronte degli animali, tipologie di alberi, bandiere del mondo, aerei di linea e militari; manuali che dividevano lo spazio con modellini di dinosauro, biro smontate per realizzare la “penna salterina che salta più in alto di tutte”, magneti e resti di esperimenti suggeriti dai fascicoli di Superquest, che all’epoca era una sorta di bibbia per i nerd in erba.
In terza media, dicevo, diventai ufficialmente ateo e uno dei miei più grandi piaceri era cercare di distruggere le “stupide convinzioni” dei credenti, a partire da quelle di mia nonna e della donna che di tanto in tanto veniva a casa nostra a stirare. Ero il classico stronzetto sapientino da prendere a sberle.

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Da allora la mia fede – perché di questo si tratta — nei confronti dell’ateismo è rimasta intatta per anni, nonostante una continua ricerca — prima per vie chimiche poi per vie intellettuali — di una dimensione spirituale a cui solo di tanto in tanto mi è sembrato di poter accedere, e sempre per brevissimi istanti.
Poi, un giorno, a 34 anni — quindi praticamente l’altro ieri — ho smesso di essere ateo.
Come chiunque persegua un certo tipo di ricerca sa, a un certo punto letture, segni e indizi sembrano dirigersi tutti verso un percorso sensato, prima in maniera più sporadica e casuale poi in modo sempre più evidente e riconoscibile, finché il “pensiero” che stai cercando si palesa, quasi fosse lui a trovare te e non viceversa.

Nel mio caso a trovarmi è stato il misticismo, là dove cristianesimo delle origini, filosofie orientali e fisica quantistica puntano tutte il dito verso una stessa conclusione1: il mondo come illusione e la necessità di liberarsi di sé per essere finalmente, davvero sé.

L’uomo, come il minotauro di Dürrenmatt, passa il tempo ad auto-ingannarsi coi suoi stessi riflessi, in un infinito gioco di specchi, chiuso nel suo labirinto, che è poi il mondo in cui viviamo. Basta spostare uno specchio anche di pochissimo perché tutto cambi, senza che però nulla cambi davvero. E credere e non credere, da questo punto di vista, è semplicemente una questione di riflessi, due facce della stessa medaglia: entrambe bidimensionali, superficiali.
L’unica, vera possibilità di azione è rompere gli specchi, mettere fine allo spettacolo e uscire dal labirinto.

Marco Klefisch questo concetto l’ha espresso benissimo col suo progetto Mirror Stage Diving, che dal 2011 riflette e cambia forma su e giù dai palchi, nei musei, nelle gallerie. Dentro allo spettacolo, quindi.
Adesso l’installazione è diventata un video, Minotaur, di cui per ora è uscito solo il trailer. E chissà se il minotauro alla fine ce la farà ad uscire…

https://vimeo.com/95157203

written by Marco Klefisch and Luca Merli
based on the installation Mirror Stage Diving
trailer music “Brute” by Colin Stetson / Constellation Records
directed by Luca Merli (Block 10)
filmed by Luca Merli / Giovanni Barberis
set design / mask / costume Marco Klefisch
3D Christian Lattuada
editing Giovanni Barberis
props Anna Stei
photo Giovanni Barberis
shot in Milano at Circus Studio

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