Niente denti sbiancati, niente rughe cancellate a colpi di photoshop né fianchi ristretti o borse sotto agli occhi magicamente scomparse. No a volti che sembrano di ceramica, alle mani fantasma che compaiono o scompaiono dalle copertine quando c’è da aggiustare un’inquadratura.
Se la quasi totalità delle riviste di moda si fa sempre più prendere la mano dalle possibilità offerte dalla fotografia digitale e dai software di manipolazione grafica, trasformando parte dell’infinito flusso di immagini che ci sorbiamo ogni giorno in un panorama estetico artificiale e irreale, c’è ancora chi preferisce andare anacronisticamente con calma e affidarsi al buon vecchio noema della fotografia di Barthesiana memoria: «ciò che io vedo è realmente stato lì, in quanto la fotografia è contingenza pura e porta sempre con sé il suo referente»—assunto che col digitale, in tutto o in parte, è andato a farsi benedire (puoi realmente dire con assoluta certezza che quel che vedi in una foto sia reale o comunque davvero aderente al soggetto che è stato davanti all’obiettivo?).
Ecco quindi la prima rivista di moda dell’era digitale ad essere realizzata solo ed esclusivamente con fotografie analogiche, spostando il grosso del lavoro in fase di produzione—luci, make-up, inquadratura, setting—anziché di post-produzione, come si fa oggi.
Ideato da un gruppo di sei ragazzi inglesi più una fashion editor italiana, Patricia Villirillo, Pylot Magazine è stato prima lanciato come piattaforma web nel dicembre del 2013 per poi uscire con un numero 0 (quello mostrato nelle foto) di sole 50 copie prima di cercare (e riuscire a raccogliere) su Kickstarter i fondi per realizzare il primo numero ufficiale, in uscita nei prossimi giorni.