Cubicle Activism

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Chiunque abbia guardato un telefilm americano sa che negli uffici dei grandi studi di avvocati (Suits), delle agenzie pubblicitarie (Mad Men) e delle aziende cartarie (The Office)—solo per citare qualche serie tv di successo degli ultimi anni—i semplici impiegati, la “marmaglia”, le ultime ruote del carro, spesso lavorano nei cosiddetti cubicles, gli angusti spazi di lavoro disposti uno accanto all’altro tipo batteria di polli da allevamento, proprio come Dilbert, l’archetipo del colletto bianco, protagonista della famosa striscia a fumetti di Scott Adams.

Anche se il termine inglese deriva dal latino (nell’antica Roma il cubiculum era la stanzetta dove dormiva la servitù), in italiano non abbiamo una parola specifica per indicare quella che è a tutti gli effetti la versione contemporanea di una gabbia, costituita da una scrivania e tre pareti a circondarne la visuale: l’unico lato libero è quello che hai alle spalle, là dove l’aria condizionata ti butta addosso un venticello che sa d’ansia da prestazione, di colleghi competitivi, di sguardi vigili e ottusi di capi e capetti che ci tengono a sottolineare, ogni singolo giorno, le gerarchie; l’unica finestra aperta quella dello schermo di un computer, al contempo strumento di tortura e via di fuga (proibita) verso l’universo delle informazioni.

Negli Stati Uniti il cubicle si è imposto fin dalla fine degli anni ’60 su idea di un giovane designer di nome Bob Propst, all’epoca direttore dell’area ricerche alla Herman Miller. Propst, che battezzò la sua invenzione Action Office, pensò ai cubicle dopo aver osservato a lungo i flussi di lavoro in relazione agli spazi, calcolando che tante mini-scrivanie le une accanto alle altre potessero stimolare la produttività.
Quarant’anni dopo, mentre gli ambienti aziendali finalmente iniziano a mutare (vedi i leggendari uffici di Google e delle startup tecnologiche in generale) i cubicle si sono diffusi in tutto il mondo e per ora resistono tenacemente alla new wave dell’open space, tanto che negli USA si continua a parlare di cubicle culture, quasi fosse una sorta di subcultura.

Oggi milioni di stagisti, neo-assunti, precari di ogni età e competenze continuano a lavorare nei cubicle. Proprio a loro il pluripremiato art director americano James Victore, già mentore “virtuale” di legioni di lavoratori attraverso una serie di video-consigli intitolati Burning Questions, ha dedicato un sito, Cubicle Activism che offre una newsletter mensile gratuita che arriva nella casella di posta in forma di poster da scaricare, stampare e appendere al cubicle per iniziare, pian piano, un rivoluzionario percorso di liberazione personale dalla schiavitù delle gabbie 2.0.

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