Mentre qui si discute e si polemizza sulla pessima Bossi-Fini, mentre i grillini mutano in grilletti silurando da un’esigua base (rigorosamente online) il pensiero del mostro a due teste che guida il MoVimento riguardo alla legge sull’immigrazione, i rifugiati per motivi politici, di guerra, di disastro naturale o carestia continuano a lasciare le loro case, chi per tentare fortuna da qualche altra parte, chi per vivere in una nazione che rispetta o comunque non criminalizza le sue idee, più spesso semplicemente per salvare la pelle (concetto mica facile da assimilare, per quei poveracci che vivono nella bambagia!), al contempo rischiandola per intraprendere viaggi impossibili, magari sopra a una delle famigerate carrette del mare che molti, in un angolino del cervello—pure tra quelli che additano i verde-vestiti che osano sbandierarlo a quattro venti—vorrebbero veder affondare per mano del cielo, della Marina Militare o di qualche vigilante esaltato.
Mentre si chiacchiera senza soluzione di continuità, perlopiù invano, in tutto il mondo si continua a morire e a scappare. Le Nazioni Unite, attraverso l’Alto Commissariato per i Rifugiati (di cui la nostra presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, è stata portavoce dal 1998 al 2012), parla di numeri a 8 cifre.
Nel solo 2012 i rifugiati sono stati quasi 18.000.000. Pari allo 0,3% della popolazione mondiale, che è poi la percentuale più o meno costante che si ripete ogni singolo anno fin dal 1975, data di inizio della raccolta dati da parte dell’Alto Commissariato. Dati che ora sono stati pubblicati sul sito The Refugee Project in forma di infografica interattiva.
L’idea e la realizzazione è di uno studio di New York (Brooklyn, ad esser precisi), Hyperakt, in collaborazione con Ekene Ijeoma, un data-driven designer—cioè colui che progetta un modo per dar senso, preferibilmente narrativo, a un flusso di dati—nonché appassionato di bici fisse ed ex-studente di Fabrica, a Treviso (quelli di Pig Magazine l’hanno beccato alla Biennale di Venezia giusto un paio di anni fa).
In tutto al progetto hanno lavorato in sei, per un totale di 500 ore di lavoro. L’input, a quanto pare, è arrivato da una conferenza dell’Alto Commissariato per i Rifugiati tenutasi a Ginevra. Il fondatore dell’agenzia di Brooklyn, Deroy Peraza, a sua volta figlio di rifugiati cubani (a quanto pare i suoi genitori hanno provato per ben 10 volte a fuggire dal paese, come racconta Peraza stesso al sito FastCo Design), è rimasto talmente impressionato dai dati da decidere di imbarcarsi in questo mastodontico lavoro. Non pagato, questo lo sottolineo.
Tornando ai dati, sulla mappa interattiva di The Refugee Project è possibile vedere con un solo colpo d’occhio tutti i flussi migratori degli ultimi quarant’anni, con schede che spiegano i motivi (perlopiù bellici e politici) che li hanno provocati.
E se nel ’75 la percentuale di rifugiati era la stessa di oggi—il famoso 0,3% di cui sopra—molti meno erano i luoghi da cui scappare, concentrati soprattutto nelle instabili democrazie/dittature africane.
Nel 1981 poi esplode l’Afghanistan, due anni dopo l’inizio dell’invasione russa che si protrarrà in un conflitto lungo 10 anni e costato al paese un dissanguamento continuo di abitanti arrivato fino al 32%.
Il ’90, l’anno dopo la caduta del muro, è invece la volta delle ex-repubbliche socialiste sovietiche poi di seguito arrivano l’embargo e poi la guerra in Iraq, il conflitto nell’ex-Jugoslavia, per tornare, a partire dal 2000 (regime taliban poi la famigerata Enduring Freedom di Bush) di nuovo in Afghanistan, che ad oggi è il paese numero 1 nella tremenda classifica dei rifugiati. E nel frattempo dall’Africa Centrale si continua a fuggire da quarant’anni.
Onore al merito di chi ha realizzato una mappa del genere che potrà aiutare, si spera, innanzitutto le Nazioni Unite a raccontare il dramma infinito che coinvolge ogni anno milioni di persone tra la popolazione civile, e poi per dare un po’ più “corpo” a quello che di solito, per la maggior parte di noi occidentali, non è che una serie di dati astratti, capaci di risvegliare nelle masse niente più che una grattata di mento, un chissene, un «prima penso ad arrivare io alla fine del mese poi mi preoccupo dei rifugiati».