Play-i

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L’hacker non è chi sa penetrare di soppiatto nei sistemi. Non soltanto, almeno. Esattamente come un idraulico, in teoria, potrebbe dirottare l’intero sistema di tubi di casa tua e, chessò, mandarlo per divertimento o per protesta o rappresaglia ad agire su quello della tua vicina di casa, così che solo se tu apri il rubinetto lei può farsi il bidet, allo stesso modo l’hacker è innanzitutto uno che sa come funziona un sistema, che ha imparato quello che sa sul campo, ficcandoci dentro le mani (vere o metaforiche fa lo stesso) ma soprattutto usando intuito e curiosità, smontando e rimontando (to hack significa proprio questo: fare a pezzi, tagliare), sperimentando nuove soluzioni, osservando i risultati.

Il paragone che si fa di solito è quello con i bambini: ci sono quelli che—poverini—prendono le cose così come sono e quelli che invece si ostinano ad aprirle per vedere come sono fatte e mentre (quasi sempre) distruggono irrimediabilmente quello che hanno smontato, imparano come funziona e magari pure a migliorarlo, dedicandosi anima e corpo ad allucinanti ibridi o inseguendo chimere, come quella volta che io e il mio amico Andrea c’eravamo ostinati a costruire un’astronave nel garage di suo nonno usando il mio Spectravideo, un vecchio carretto di legno e due tricicli mezzi rotti, o quell’altra volta in cui, ossessionato dall’idea di riuscire a far saltare una penna a molla di almeno mezzo metro passai giorni a smontare decine di penne identiche che mio padre mi portava a casa, regalo di qualche azienda. Provavo ad allungare la molla, la bruciacchiavo con i fiammiferi presi di nascosto per modificarne la resistenza. Incastravo una molla sull’altra col risultato di ottenere penne più salterine del solito ma rovinandole per sempre. Finché una volta… Non so neanche quante molle riuscii ad incastrarci dentro. Riuscii a fatica a richiuderla, rinforzai il guscio esterno con svariati giri di scotch. Poi *clack*. Il decollo.

Per non parlare del computer che, oltre ad utilizzarlo per viaggiare nello spazio, tentavo di programmare in basic, seguendo le istruzioni di un libretto ad anelli in inglese (che non sapevo), cercando di capirci qualcosa, perlopiù buttando giù comandi, riga dopo riga, IF, THEN, ELSE, PLAY, RUN, stando poi a vedere che succedeva. Di solito niente di che. Ma vuoi mettere la soddisfazione? Dall’hardware ero passato al software, come hanno fatto milioni di quelli della mia generazione, di solito con risultati più incoraggianti dei miei.

Oggi i bambini, anche i più piccoli, usano con disinvoltura tutti gli apparecchi touch che girano per casa. Gli stessi che per insegnare a usarli ai loro nonni, devi proprio “riprogrammarli”. I nonni, intendo.
Mia figlia, che ha quasi cinque anni, vive in un mondo di software già bello e pronto, poco o per nulla modificabile, e ha ben poco da smontare. Quello che però per mio padre è stato il Meccano, per me i mattoncini Lego e le penne che saltavano mezzo metro, per lei saranno forse i pezzi di codice. E se la scuola—non solo italiana, per una volta—è ancora piuttosto scarsa per quanto riguarda l’insegnamento dei linguaggi di programmazione (c’è chi sostiene che si debba inserire la materia come obbligatoria e fin dalla più tenera età, come l’italiano, la storia e la matematica e non facoltativa come lo è di solito la seconda lingua straniera, e io sono assolutamente d’accordo) presto si potrà iniziare a svezzare futuri hacker direttamente in casa propria grazie uno strumento come Play-i.

Si tratta di un progetto tuttora in fase sperimentale ma che, avendo già raggiunto il budget (250.000$ in pochi giorni) attraverso una campagna di crowdfunding lanciata sul proprio sito web, vedrà la luce la prossima primavera, ideato da quattro genitori/inventori/programmatori provenienti dal mondo della cosiddetta IT, che sta per information technology: c’è Vikas, fondatore della piattaforma di e-commerce Jambool ed ex-dipendente Amazon e Google; c’è Mikal che fa l’industrial designer e l’inventore e lavora da Frog Design, una delle più grandi aziende a livello mondiale per quanto riguarda la progettazione di apparecchiature tecnologiche (per dirne una, il design degli storici televisori Trinitron l’hanno creato loro, come pure uno dei primi, leggendari computer della Apple, il IIc); poi c’è Saurabh, per sei anni a capo dell’iPod software team; e infine Imran, esperto di e-commerce e progettista del negozio online e del digital marketing della Symantec, quella degli antivirus.

Una squadra eccezionale per un’idea altrettanto eccezionale: insegnare ai bambini la programmazione attraverso una coppia di robottini da controllare tramite iPad (e presto anche con Android) grazie ad un’applicazione dentro alla quale comporre il codice e stare poi a vedere come reagisce il robot, capace di riconoscere altri robot come lui, dotato di luci, sensori e una serie di appendici intercambiabili che gli permettono ad esempio di suonare, portare oggetti, interagire con il mondo circostante e col bambino/programmatore.
Il video spiega meglio di mille parole di che si tratta. E di che svolta può rappresentare nel campo dei giochi educativi, settore che dai “libri aumentati” alle applicazioni di apprendimento sta facendo passi da gigante (a patto di non dimenticare mai che un caro vecchio libro, un secchiello pieno di mattoncini di legno o un cucchiaio da sbattere sopra a una pentola sono ancora assolutamente indispensabili e insostituibili).

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