In Turchia dagli anni ’60 agli anni ’90 andava di moda un genere musicale influenzato in egual modo dalle sonorità arabe, dalla musica folk locale, dagli strombazzamenti balcanici e dal pop occidentale. Un genere dove tutto ruotava attorno alla parola amore, dove si parlava di sentimenti e tradimenti e malinconie e sofferenze, dove tutto era bianco o nero, esagerato, senza sfumature intermedie. Genere, pure, che negli ultimi tempi ha trovato nuova linfa nell’ulteriore commistione con ritmi tunz tunz da sala da ballo. Sembra la descrizione dei neo-melodici napoletani, lo so—ed in effetti i parallelismi sono tanti e basta una ricerca su YouTube per scoprire che anche a livello di estetica dominante le somiglianze non mancano: capigliature assurde, abbigliamento eccessivo fatto di colori accesi e lavorazioni barocche, per un effetto finale che sfiora (e spesso oltrepassa) il ridicolo, ovviamente senza alcuna consapevolezza da parte dei diretti interessati.
Ruhi Tamer Cogal, giovane fashion designer turco che incontro al Pitti e che prova inutilmente a spiegarmi la pronuncia del nome—che registro, probabilmente sbagliando, come Ru-hi Tämäsh Högai, l’ultima H da esternare come in preda al soffocamento—per la prima collezione firmata a sua nome si ispira proprio a questo genere, chiamato arabesque o arabesk.
Dopo aver imboccato la strada della moda per vie assai tortuose—una laurea in legge ad Ankara ed un impiego nel reparto vendite e marketing della Procter & Gamble—Ruhi è volato a Milano per studiare all’Istituto Marangoni per poi ritornare in patria e lavorare per un marchio di moda maschile. Due anni dopo arriva il bisogno di trovare una propria personalissima voce nell’ambito del fashion design, e l’idea di lanciare una linea a proprio nome.
Dopo aver studiato legge ad Ankara, Ruhi Ha prima studiato in turchia poi ha frequentato l’Istituto Marangoni per studiare fashion design, prima di tornare di nuovo in Turchia, ad Istanbul, dove per due anni ha lavorato per un aziende di moda, per poi decidere di lanciare la propria linea, che debutta al Pitti con un inno al trash involontario, attraverso una lucida ed ironica rivisitazione contemporanea dei cliché dello stile arabesk, sintetizzata in capi dai tagli estremi, quasi circensi, camicie lucide e lavoratissime, una palette di colori saturi e grassi e tanti piccoli dettagli come il tespih (il rosario turco) a mo’ di bracciale o le scarpe lavorate a mano in pelle intrecciata, indispensabili per entrare totalmente nel personaggio.
E ora largo ad İbrahim Tatlıses, catante arabesk (42 album all’attivo), attore, regista di sé stesso, presentatore tv, 3 volte scampato alla morte in altrettanti tentati omicidi.
http://www.youtube.com/watch?v=m1Vw6E75DgE