Issues | Intern Magazine

Stagista è una parolina magica che in sole 8 lettere riesce a spiegare e riassumere la situazione economica, sociale, lavorativa, politica ed etica del nostro Paese negli ultimi 16 anni, da quando nel ’97 il termine è entrato sia nel vocabolario italiano—direttamente dal francese, passando per l’inglese, da qui la duplice pronuncia, suscettibile di mode temporanee, steigʒ all’inglese o staʒ alla francese—sia nel nostro ciclopico apparato legislativo, grazie all’ex-ministro Treu, in un pacchetto di riforme “contro la disoccupazione” (pare di sentirla, nevvero, la sonora pernacchia che tra i banchi del parlamento si levava nell’aula mentre, schiacciando qualche bottoncino, svariate centinaia di eletti dal popolo ipotecavano il futuro di un paio di generazioni di italiani?).
Prima lo stage si chiamava semplicemente tirocinio, per gli amici andare a bottega. Gli inglesi, invece, hanno preferito adoperare un più elegante intern, termine preso in prestito dal francese, che però ha la stessa inquietante radice di internato e (campo di) internamento.

Da allora eserciti di futuri precari sono usciti dalle scuole e dalle università, sciamando tra le imprese, svendendo (anzi, regalando) il proprio tempo e il proprio talento per riempire inutilmente curricula che negli anni sono andati ad allungarsi in maniera direttamente proporzionale ai ciao ciao ricevuti da direttori del personale e capufficio al termine dello stage (a volte—fedele alle sue radici linguistiche—più simile ad un internamento che ad un’esperienza formativa).

Fuori dai confini di questo nostro stivale—metafora dei calci in culo che bisogna abituarsi a prendere per tirare avanti—la situazione non è molto migliore. Per questo un gruppo di precari di Manchester ha iniziato a farsi domande sulla pratica dell’internship, considerandola non soltanto, appunto, una pratica ma una vera e propria cultura—cultura che negli ultimi vent’anni ha dominato sia il mondo del lavoro sia il dibattito pubblico—e cercando di capire come essa possa aver modificato a breve e a lungo termine uno dei settori, l’industria creativa, che va letteralmente avanti solo grazie agli interns,

Ecco quindi Intern Magazine, la prima rivista fatta da e dedicata ai precari del design, della moda, della grafica, dell’animazione.
E precaria per ora è anche la rivista stessa, che su Kickstarter sta cercando finanziamenti attraverso il crowdfunding per far uscire il primo numero, dopo un numero zero—di prova—di 12 pagine ed in edizione limitata.

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