Ma il made in Italy, in Italia, va promosso

[wpcol_1half id=”” class=”” style=””]In Italia, paradossalmente, diventiamo provinciali tanto più cerchiamo di non fare i provinciali.
Attuare, nei fatti e non solo nelle tante belle parole spese durante eventi, convegni e concorsi, una sorta di “protezionismo illuminato” verso le eccellenze e i talenti del made in Italy e soprattutto verso quelle fucine—le scuole—che contribuiscono a formarli, non è provincialismo, è saper guardare avanti. E lontano. In altri Paesi è prassi consolidata che mezzi di comunicazione di settore, fondazioni, enti ed imprese diano maggior attenzione, possibilità e visibilità a quel che si muove all’interno dei propri confini. Se non ci aiutiamo da soli, credo, non saranno di certo gli altri a farlo. Ed è solo attraverso delle politiche volte a promuovere chi il made in Italy lo fa, lo studia, lo insegna—nel piccolo come nel grande—che si può guardare a quel che succede al di fuori del nostro Paese e confrontarsi davvero alla pari, e senza sensi di inferiorità, per una crescita comune.
[/wpcol_1half] [wpcol_1half_end id=”” class=”” style=””]È per questo che ho scelto di pubblicare una lettera aperta di Maria Luisa Frisa, direttore del corso di laurea in design della moda allo IUAV di Venezia, rivolta a Barbara Franchin , direttore di ITS—evento dal respiro internazionale (come da titolo: International Talent Support) ma organizzato in Italia, che da tredici edizioni si propone di supportare e promuovere i talenti nel campo della moda—e alla giuria del festival.

Perché una lettera aperta? Perché pubblicare quello che effettivamente potrebbe benissimo essere una comunicazione “dietro le quinte” tra addetti ai lavori? Perché, credo, in questo modo ciascuno potrà esprimere alla luce del sole la sua visione delle cose, prendendosi pubblicamente la responsabilità delle proprie parole e posizioni.

Con l’augurio di ricevere presto una risposta dalla Sig.ra Franchin o dai membri della giuria, ecco la lettera di Maria Luisa Frisa.[/wpcol_1half_end]


Cara Barbara e gentili membri della giuria di ITS,

eccomi a scrivervi, dopo aver riflettuto a lungo sull’opportunità di farlo, per cercare di porre alcune questioni circa le scelte riguardanti i finalisti di ITS.

Infatti la mia posizione di direttore di un corso di laurea (il corso di laurea in design della moda dell’Università IUAV di Venezia) coinvolto nel concorso e senza nessuno studente qualificato in finale, può forse indebolire le mie parole, ma credo che l’impegno con cui da molto tempo mi occupo della moda italiana nella sua complessità, la carica di Presidente di MISA Associazione Italiana degli Studi di Moda, che ricopro da febbraio, e da ultimo le mie precise scelte professionali, possano dare alle mie parole il giusto valore. Ma soprattutto la giusta intensità. E d’altronde penso che sia inutile parlare della necessità di una nuova stagione della moda italiana se non cerchiamo di dare valore al sistema cercando di ricostruire un tessuto in cui le scuole sono sicuramente una parte fondamentale.

Anche quest’anno non c’è nessuna scuola italiana a presentare un suo studente in finale, come in molte altre edizioni della importante storia di ITS. Come al solito fanno da padrone le grandi scuole straniere che hanno una tradizione più consolidata della nostra, e che sono riuscite anche grazie all’importante supporto delle aziende italiane a diventare sempre più protagoniste e competitive nel grande business della formazione dei creativi.

Penso però che il confronto non possa ridursi alla constatazione di quanto sono bravi a Londra, a Tokyo, o a Parigi, lamentando le inefficienze italiane, senza poi fare nessun gesto importante per cambiare le cose. Certe situazioni dovrebbero invece produrre l’impegno a dare profondità e valore alla nostra storia e prospettive al nostro futuro per cercare di rifondare in tutte le sue articolazioni il nostro sistema paese che si dibatte da troppo tempo in una crisi senza precedenti.

Bisogna assumere un’interpretazione della moda che attribuisce importanza primaria ai suoi meccanismi, che non ammette cioè che le visioni e gli immaginari mobilitati dalla moda si generino automaticamente, ma che vadano invece stimolati e indirizzati attraverso la formazione degli attori del fashion system. Troppo spesso in Italia la creatività e il talento sono trattati come qualità innate. Si deve invece mettere a punto un modello italiano di scuola di moda che non vuol dire essere stupidamente nazionalisti, ma vuol dire definire un carattere di eccellenza, mettendo a punto una cultura consapevole della moda.
Un meccanismo in cui l’attenzione alle nuove generazioni non sia un inutile gesto buonista di comunicazione che mette in pace la coscienza e confina i nuovi autori in un limbo separato dalla realtà, ma sia un reale impegno in cui il mettersi in gioco vuol dire avere il coraggio di dare opportunità nella dimensione dura e conflittuale della competizione reale.

Tutto questo per dire che è necessario che ITS e la sua giuria si assumano la responsabilità, visto che rappresentano un premio che si svolge in Italia, di cercare di dare valore anche al lavoro che in Italia stanno svolgendo, pur tra mille difficoltà, molte scuole pubbliche, ma – anche senza i problemi economici delle pubbliche – le scuole private.
Mi rendo conto che è molto più glamour e quindi più comunicativo lavorare con la Central Saint Martins o il London College of Fashion di Londra, o con il Bunka o la Coconogacco di Tokyo, ma se non c’è la volontà di cercare e valorizzare quello che viene fatto in Italia fin da quel tassello fondamentale che sono le scuole sarà molto difficile costruire un paese migliore con i numeri giusti per competere nella grandi piattaforme internazionali.

Quello che chiedo non è una quota italiana, quello che chiedo è la volontà di far crescere la situazione italiana. L’attenzione e la cura nei confronti del lavoro che molti stanno cercando di portare avanti. E per fare in modo che le cose cambino, dobbiamo crederci prima di tutto noi.

Maria Luisa Frisa

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