The book is on the table | Perciò veniamo bene nelle fotografie

Perciò veniamo bene nelle fotografie
di Francesco Targhetta
ISBN Edizioni 2012

Un libro notturno. Notturno e immobile (e perciò veniamo bene nelle fotografie). Come un mare di magma che visto dall’alto e da lontano riluce immoto nel buio ma se ti avvicini ribolle di tutta la potenza trattenuta per secoli dalla crosta esterna, che altri non è che uno strato di rabbia raffreddato. Tutto ciò che abbiamo da offrire agli altri, quando ci toccano, ci guardano, ci salutano, si appoggiano alla nostra spalla, è rabbia secca che si sfalda anno dopo anno. Un granello dietro l’altro che va ad accumularsi tra le lenzuola, che ramazzi via dal pavimento, che soffi via dalla giacca.
E dentro, intanto, ribolle un magma che ci metterai una vita a tirar fuori, se mai troverai un cavolo di buco, una capocchia di spillo per farlo uscire, tutt’altra cosa rispetto alla voragine che ogni notte tocchi con mano fredda lì in mezzo alla pancia, nella solitudine (pure se di coppia) del tuo letto, immaginando esplosioni a cielo aperto e incontenibile furore, lo stesso che scivola via dalla bocca sudata quando butti giù bevute quasi non ci fosse un domani (c’è, dopotutto? Non è che avevano ragione gli stereotipi punk che sbandieravi, quand’eri ancora cieco ed il no future sembrava un semplice dato di fatto, visto che vivevi là e allora, in un continuo presente che si stendeva senza fine in ogni direzione, il centro coincidendo sempre e comunque con l’ombra del tuo naso, illusione ottica a cui poi l’età è arrivata inesorabile a togliere il velo, piazzandoti d’improvviso dentro ad una bolla, una stretta, patetica, normalissima bolla di vetro – il tuo ’qui e ora’ che rotola per il mondo ma non ti permette di toccarlo mai davvero, che lo distorce con le sue pareti lisce e curve, ne attutisce i suoni, ne vanifica le luci, ne spegne odori e sapori. E rimani tu e il tuo ritmo, fatto di battito e respiro, fatto di versi che provano, come punte di diamante, a tagliare quel vetro, ad urlargli contro finché nei hai la forza, fin quando la voce si abbassa, scende il buio e ti siedi a pensare, rotolando attraverso un romanzo che sembra sussurrarti all’orecchio quello che nessun altro, – con te – e ora, ha provato ed è riuscito a raccontare così bene, aiutandosi non a caso non con la prosa ma con la poesia, la lingua del magma, il rumore sommesso dei versi che martellano e martellano, tagliando via veli, provando insieme a te a spaccare quel vetro lucido fatto di miliardi di miliardi di granelli di quella rabbia secca che ti sei grattato via, fusi insieme e soffiati al ritmo del respiro, caricando per tutto il libro il colpo, verso dopo verso, raccontandoti con immagini che raramente hai trovato tanto vivide, quasi accecanti, incredibilmente precise, la claustrofobica bolla, piena di roba, illusoriamente infinita, in cui hanno rinchiuso la nostra generazione inutile).

Scrive Francesco Targhetta, trevisano classe 1980, di sé e di te:

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Colpevole è la Signora Santini,
che in cucinino aveva piastrelle
come quelle della casa dei nonni,
e tutte le caramelle Rossana
che mi offriva, con quel ripieno
infettivo e la superficie collosa,
nelle visite alla sua decadenza
durante autunni di minacce
atomiche; colpevoli, di più, sono
i coniugi Moro, per le Fiesta
ubriacanti in pomeriggi afosi
segnati con le impronte di camion
e tir; colpevole è il barista all’imbocco
della via, che d’estate regalava
a me e mio fratello un Calippo
all’arancia, alla menta, al limone,
quando l’afa stagnava sulle seggiole
a stringhe assieme ai pensionati
e al giro di Francia; colpevole è
la televisione, colpevoli tutti,
se adesso
dipendo dagli orsetti gommosi,

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da Haribo fucsia e liquirizie flessibili,
dai marshmallows verdi al sapore
di nichel e i coccodrilli fruttati
prodotti in segreto in armerie
colombiane coi tetti di eternit,
da banane imbottite di zucchero
e chupa-chups alla panna e fragola,
alla mela cotogna, alla Coca-Cola,
che è il massimo dell’astrazione
chimica raggiungibile dall’uomo,
è colpa anche di mia nonna materna
e delle Big Babol al gusto uva,
un aroma semisiderurgico
che poi sfociava nell’indistinto
dopo un paio di minuti goduti
con una furia quasi animale, e di certo
rea è mia madre se adesso
ho iniziato a datare gli anni
dalle merende che mangiavo allora,
dal biscotto inzuppato a colazione,
dai cracker della scuola […] [/wpcol_1half_end]

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