Delle unghie ci siamo interessati a più riprese: lo abbiamo fatto con un atteggiamento di rispetto (nei confronti di chi professionalmente offre un’alternativa convincente al mangiarsele) e anche con una punta di curiosità e raccapriccio.
Ma il fatto che esista un genere di nail art slegato dal concetto di dito, mi coglie proprio impreparata.
Ad ogni modo ve la presento: lei è Rachel Betty Case, una designer originaria di Lopatcong in New Jersey cresciuta con dei genitori “very supportive” e uno stile caratterizzato dall’accostamento emotivo di elementi rinvenuti casualmente nei boschi della sua infanzia. Le sue creazioni sono gioielli lugubri dall’aria post antica e microscopica (nel senso che ti danno proprio l’impressione che li stai osservando al microscopio).
Simili ai feticci di viaggio che potresti trovare nella cassa del necessaire di un esploratore alla ricerca delle sorgenti del Nilo, assumono forme imprevedibili e caratterizzate da forte dinamismo, soprattutto pensando che sono realizzate assemblando il materiale che risulta “spellicolando” longitudinalmente delle unghie (di chi? Dei genitori “very supportive”?), il molto ironico avorio umano appunto.
Il termine è stato coniato dalla creatrice stessa mentre lavorava al progetto della sua tesi di laurea discussa nel 2008 presso il Delaware College of Art & Design, di cui facevan parte dieci piccoli scheletri congelati in una mimica tribale, composti da lunette tagliuzzate da unghie e montati su altrettanti piccoli piedistalli in legno.
E se Rachel Betty Case e questa sobria signora si incontrassero?