L’immagine d’apertura, i ragazzi della triennale in Design della Moda dello IUAV che riempiono il palcoscenico del Teatro Comunale di Treviso al termine del Graduation Show, vale più di mille parole: la festa dopo il duro lavoro, la celebrazione dopo mesi passati a progettare, gli applausi – tantissimi e meritati – dopo anni spesi ad imparare e, soprattutto, a fare.
Ma se l’apparire, il frutto “estetico” di tale lavoro, lo lascio volentieri alle foto, quel “fare” merita di esser raccontato a parole, quelle ascoltate, quelle pensate, quelle intraviste negli occhi (sgranati: dovrebbero ribattezzare l’open day in open eyes) di chi per la prima volta si è trovato davanti a quello spettacolo totale che è l’evento di fine anno della “creatura” di Maria Luisa Frisa, un’armata creativa sotto le mentite spoglie di un’università pubblica (ripeti insieme a me: pubblica) che non ha eguali qui in Italia.
Avresti dovuto vederli i volti delle giornaliste che non credevano a quel che avevano di fronte (“ma davvero i ragazzi hanno cucito ogni abito, tagliato ogni modello, dato la forma ad ogni scarpa?”) ed entravano e uscivano dalle classi e dai laboratori quasi sopraffatte dalla quantità e dalla qualità dei lavori degli studenti.
Se anche per un solo minuto una stanza si svuotava dei ragazzi, dei professori, dei media, dei genitori, dei curiosi e rimanevi solo, lì in mezzo a manichini, telai, schermi, disegni e ispirazioni rubate alle decine di work in progress scartati o diventati realtà – materia da indossare illuminata dal sole che ti seguiva dappertutto come a non voler farti perdere niente – e ti sembrava di stare dentro ad un cervellone abitato dall’intelligenza collettiva che era riuscita a concepire e mettere in pratica tutto ciò.
Un’intero edificio che per un giorno si è fatto mostra, galleria. Viva, coi battiti cardiaci a dare il ritmo e sui quali sincronizzare i tuoi, prima di uscire, ancora senza fiato, e precipitarti alla sfilata.
Non riuscire a trattener le parole e lasciarti andare con la vicina di platea a mille commenti, mentre le mani non la smettevano di battere, e le tue dietro ad applaudire quasi senza accorgertene.
E poi di nuovo via, ad occupar di corpi e respiri e sudore un’altra scuola lì vicino, per le performance e le installazioni dei ragazzi della magistrale, tra piccoli capolavori che entravano ed uscivano dalle aule, sonorità industriali, abiti e modelli a girare in tondo come impeccabili compassi, teche d’inquietante bellezza, lentissimi e teatrali movimenti immersi in una finta noia (ché da queste parti la noia puoi solo recitarla) con miriadi di occhi che, a coppie, entravano e uscivano da mondi accuratamente confezionati per entrarne in altri.
In poche parole: un progetto. Quello che ogni Scuola degna di esser considerata tale dovrebbe essere.
Un progetto che dal momento in cui decidi di iscriverti ti accompagna fino al tuo primo concept di collezione, alla scelta dei materiali, alla produzione, alla comunicazione, agli stage nelle aziende (“sei seguito passo dopo passo e mandato lì dove potrai esprimere meglio quelle che sono le tue caratteristiche: sono una sorta di stage su misura”), alla tua prima sfilata.
E mi chiedo: dove sono tutte le testate del settore – mainstream ed indipendenti?
Ché è in posti come questo che dovrebbero mandare i loro giornalisti a fare scouting, e non soltanto agli aperitivi negli showroom e ai bordi delle passerelle di chi non ha certo bisogno di farsi pubblicità.
Le storie da raccontare sono queste: un’università pubblica, un progetto serio, ottimi insegnanti, ragazzi che se ne escono da lì con le spalle larghe, una borsa piena di esperienze e soprattutto gli strumenti pratici e teorici che permetteranno loro di cavarsela in un mondo spietato come quello della moda.