Circa un anno fa, raccogliendo materiale fotografico per la cantante folk Josephine Foster, mi sono imbattuto in uno splendido scatto opera di Eva Vermandel, realizzando in quel momento che molti ritagli e foto da me salvati negli ultimi anni portavano la sua firma e proprio da lì è cominciato un interessante scambio di pareri ed opinioni sul mondo della fotografia che periodicamente si rinnova. Eva Vermandel è un’artista colta e completa, delicata quanto determinata, dimostra una padronanza ed una tecnica fuori dal comune. Le sue fotografie sconfinano nella pittura, l’immagine è una tela, la macchina fotografica un pennello, il suo buon gusto una firma che non teme confronto. Vedere per credere.

Ciao Eva, dove ti trovi in questo momento?
In questo momento sono a casa e sto lavorando ad alcune scansioni e recuperando mail nel mio account… Molte cose si sono incredibilmente accumulate ultimamente, per cui questa settimana sarà dedicata a terminare tutte le scansioni e dare priorità anche a tutto il resto, tipico aspetto dei liberi professionisti.

Se potessi acquistare un biglietto aereo e staccare un po’, dove andresti?
Sinceramente non andrei dai nessuna parte, sono molto felice di essere a casa ora. Viaggio così tanto per lavoro, che la meta più agognata per le mie vacanze è la mia casa.
Molti fotografi viaggiano in giro per il mondo, scattano foto, costruiscono la loro esperienza in virtù del viaggiare, ma ogni volta che vedo i tuoi scatti ho l’impressione che tu preferisca viaggiare dentro le persone, piuttosto che da un punto di vista geografico. E’ vero? Se sì, quali sono i tuoi sentimenti al ritorno dai tuoi viaggi nell’animo umano?
E’ esattamente così. Avere delle radici è fondamentale per me; ciò che mi interessa non è mostrare quello che sta fuori l’involucro, che è di per sè visibile già a tutti. Voglio mostrare ciò che giace al suo interno, il fluire della vita, un sentimento che si possa riconoscere.

Sei cresciuta a Sint-Niklaas, in Belgio, ma nel 1996 ti sei trasferita a Londra. Cosa mi dici della tua città natale e dei tuoi studi presso il Royal College of Art a Ghent? Cosa ti manca del tuo paese?
Già da bambina desideravo vivere in Inghilterra, non saprei dirti il perché. Essere una grandissima fan degli Smiths già a 12 anni non ha poi certamente aiutato a distogliermi da quell’idea.
Appena ne ho avuto la possibilità, intorno ai 15 anni, sono andata a Brighton per un corso di lingue di 2 settimane.
Non mi manca il Belgio e vi faccio ritorno solo per fare visita alla mia famiglia e ai miei amici. E’ un bellissimo paese, con un alto tenore di vita, ma lo trovo troppo claustrofobico, non certamente aperto come Londra.
Che tipo di immagini potrebbero riassumere la tua decisione di diventare fotografa? Semplicemente chiudendo i tuoi occhi, cosa trovi nella tua memoria?

Mio padre era un appassionato di fotografia, le macchine fotografiche erano per me già da neonata come la pappa! Sono sempre stata interessata all’arte, trascinavo i miei genitori per tutti i musei quando facevamo visita a mia zia ad Anversa (non che loro si opponessero, a loro piace l’arte ma non ne sono appassionati), anche la musica ha giocato un ruolo fondamentale.
Crescendo ho dovuto affrontare un grande conflitto interiore fra lo scegliere la strada dell’arte o della musica (ero chitarrista in una band quando avevo 17 anni) e alla fine l’arte ha vinto piuttosto facilmente: la mia macchina fotografica è un’estensione del mio corpo, fare foto per me è estremamente naturale, mentre fare musica era sempre stato uno struggimento interiore. Ci sono tante cose che mi hanno ispirata, penso sia la vita in sè che principalmente mi ispiri. Anche alcuni dipinti che ho visto durante la mia adolescenza, soprattutto le pitture fiamminghe, sono stati fondamentali per la mia formazione.

Approdata a Londra, nel 1996, hai cominciato a lavorare per riviste come Vox, The Wire, Mojo, Vogue, realizzando scatti a musicisti del calibro di PJ Harvey, Beth Gibbons, Damon Albarn, Tom Waits, Marianne Faithfull, Nick Cave, giusto per citare alcuni nomi della tua ricca ed interessante lista di collaborazioni.
Che tipo di sentimenti hai provato in quel periodo, incontrando e parlando ad artisti del genere, che forse erano anche stati le tue icone durante i tuoi studi? Hai una diversa prospettiva oggi? Che cosa hai imparato dallo stare in contatto con persone del genere?
Lavorare con persone come Polly Harvey e Beth Gibbons è ovviamente un dono. Conoscevo la loro musica prima di fotografarli ed essere stimata da loro mi rende felice. Durante le sessioni fotografiche, se si tratta di artisti come Beth, Polly o Chan (Marshall, Cat Power) con cui lavoro regolarmente, allora c’è molta allegria sul set, si ride molto, sebbene non lo immagineresti vedendo poi le foto. Con persone come Tom Waits e Nick Cave mi godo semplicemente l’opportunità di essere lì a fotografarli, chiacchierando un po’.

L’industria musicale è cambiata molto negli ultimi 15 anni. Ricordo che ancora nel’95/ 96, poche persone avevano internet. In Italia, per esempio, c’era una grande carenza di informazione sulla musica “indie” e la gente voleva saperne sempre di più. Io personalmente ho comprato in quel periodo tantissime riviste inglesi ed americane come Mojo, Vox, Spin, Dazed. Negli anni ’90 la gente comprava i cd anche per via del booklet, dell’immagine di copertina, delle foto del proprio artista fra una canzone e l’altra.
Oggi con la generazione degli mp3 e con itunes, tu puoi decidere di scaricarti il booklet virtuale e stampartelo a casa, oppure spendere molti soldi per acquistare la versione limitata deluxe del cd, con un extra booklet.
Tu che hai realizzato bellissimi booklets, pensi che stiamo vivendo in un’era povera di valori estetici che non nobilita il tuo lavoro di artista? Credi che internet in qualche modo abbia ucciso il reale valore di una fotografia stampata e che la gente si senta semplicemente soddisfatta ad avere una manciata di pixel sgranati, piuttosto che a “possedere” realmente l’immagine?
Amo le possibilità che internet offre. Adesso quando la gente vede i miei lavori in una rivista possono cercare su google e trovarmi e visitare il mio sito.
Preferisco di gran lunga mostrare i miei lavori sul mio sito piuttosto che attraverso un qualsiasi altro strumento di comunicazione di massa: il mio sito è esattamente come voglio che sia, diversamente da quando lavoro su commissione dove devo sempre scendere a compromessi con artisti e designers.

Questo aspetto è anche interessante, ma se la gente vuole avere un’immagine fedele del mio lavoro si trova lì, online, facilmente accessibile e aggiornabile. Ho un po’ di difficoltà con la società del consumo, con tutto questo usa e getta.
Non sono una grande consumatrice, piuttosto faccio tesoro di quello che ho, anche se si tratta di una foto ritagliata da un giornale (a volte le colleziono e quando sono sbiadite le incornicio, considero lo sbiadirsi come un processo intrinseco). Sono molto contenta dell’artwork fatto per alcuni booklet, specialmente quello per Beth Gibbons and Rustin Man e per Squarepusher.
Già, quello per Beth Gibbons e Rustin Man in “Out of Season” è grandioso! L’immagine di Beth un po’ corrucciata in copertina è veramente profonda e allo stesso tempo coglie la gente di sorpresa. Com’è venuta questa idea?
Beth aveva già da prima le idee molto chiare, ispirata dalla copertina di un vecchio album degli anni’70 con un ragazzo ed un layout simile. Abbiamo fatto quello scatto proprio a fine sessione, cosa rara per me: generalmente eseguo gli scatti migliori all’inizio.
La mia scelta sarebbe stata un’altra, sempre dello stesso momento, ovvero l’immagine di Beth che sorride con gli occhi verso il basso, perché per me quella “E'” Beth, ma l’altra con la smorfia sembrava più indicata per il layout di copertina.

L’aspetto più affascinante delle tue fotografie è la semplicità della composizione e l’impressione che tu stia raccontando una verità che racchiude un mistero al suo interno. In ogni ritratto sembra che il soggetto sia perfettamente a suo agio con la tua camera. Quale lato del tuo carattere pensi aiuti molto per la tua professione?
I miei genitori mi hanno cresciuta in modo molto aperto, sia mentalmente che fisicamente (loro erano letteralmente naturisti). Tutte le preoccupazioni, pensieri, che rimbombavano dentro la mia testa potevo confidarli a loro, senza alcun taboo.
Loro mi hanno dato molto amore e protezione, cosa che mi ha permesso a mia volta di essere in grado di offrire gli stessi sentimenti a molte altre persone. Per cui in uno scatto cerco sempre di rendere l’atmosfera confortevole per la persona che dovrà essere fotografata, creando un dialogo comune.

Arrivo sul set sempre prima del soggetto, così da preparare tutta l’attrezzatura, in questo modo non si crea stress. Non uso molte pellicole, chiacchiero molto o lascio la gente chiacchierare. Indirizzo il soggetto verso la luce, lo faccio accomodare in una posizione a lui favorevole; la gente apprezza molto che venga loro detto cosa fare, perché il 99% di loro odia essere fotografati. Allo stesso modo non chiederei mai di fare qualcosa in cui il soggetto non si sentirebbe a suo agio: è un loro ritratto, non il mio.
Che artisti con cui non hai mai lavorato ti piacerebbe fotografare?
Mi piacerebbe fotografare la band Wild Beats oppure Joanna Newsom. Mi ispirano entrambi molto, sia la loro musica che i loro testi. Sono molto fisici, la loro corporeità è molto presente e questo è un fattore fondamentale per le mie foto.

Nel 2008 è uscito il libro fotografico dei Sigur Rós: 200 pagine di tuoi scatti. Ce l’ho e lo adoro. La mia foto preferita è quella, verso la metà del libro, che ha come soggetto il tastierista Kjartan Sveninsson. Mi ha ricordato i primi scatti a colori della grande Inge Morath. Potresti raccontarmi qualche aneddoto sul libro? Com’è stata l’esperienza di condividere il tuo tempo con altri artisti? Hai appreso nuove cose su te stessa?
E’ stato un lavoro da sogno, da non dimenticare. La band è magnifica, tutte persone speciali, in particolare Kjartan che è incredibilmente fotogenico. Sono tutti estremamente a loro agio con il proprio corpo, ideale per un progetto del genere. E’ stato molto divertente ( I Sigur Rós sono artisti professionisti e allo stesso tempo molto divertenti), ma è stato anche faticoso. Andare in tour non è ciò che esattamente mi piace fare, non sono una gran bevitrice sebbene mi piaccia fare nottata di tanto in tanto, ma uscire ogni sera mi sfianca, ho bisogno di pace, calma e comfort. La crew mi chiamava Anne Frank perché ero sempre la prima ad andare a letto su nel mio attico (avevo il letto in alto nel bus), la cosa mi divertiva molto, erano tutti molto dolci.

Cosa mi dici dei tuoi artisti, fotografi, musicisti, scrittori, direttori preferiti?
La mia sorgente di ispirazione è soprattutto la pittura, i miei pittori preferiti sono Bronzino, Ingres, i Fiamminghi, Christen Købke, Munch, Gainsborough, Caspar David Friedrich, Picasso nel suo periodo blu e rosa, recentemente anche Neo Rauch e Michaël Borremans, con cui ho stretto amicizia da un paio di anni.
Sono anche molto ispirata dallo scrittore DH Lawrence: il modo in cui utilizza le stanze e gli oggetti per descrivere cosa stia accadendo dentro la testa dei suoi personaggi è esattamente ciò che io voglio fare con il mio lavoro. Una volta ho letto un fantastico articolo riguardo i suoi lavori scritto dal critico letterario James Wood, in cui diceva che “le opere di Lawrence contrastano la realtà verso l’invisibile”. Questo centra esattamente quello che voglio esprimere con il mio lavoro, in questa dicotomia risiedono le opere di Lawrence: come la gente si ami e si odi allo stesso tempo, una forte e sconcertante peculiarità esclusivamente umana.
La serie TV tedesca Heimat, soprattutto le prime due serie, mi hanno ispirata molto, così come Elephant di Gus Van Sant, che apprezzo per la sua ricorsività di elementi e la brillante fotografia.
In ambito fotografico stimo molto Julia Margaret Cameron, Francesca Woodman, Imogen Cunningham, JH Engstrom, Wolfgang Tillmans e i lavori del mio amico Joss McKinley.

Se tu non fossi Eva Vermandel, quale foto compreresti dal tuo archivio?
Probabilmente “Tree reflected in Water” tratta dalla serie “Alabama Chrome” oppure il dittico ‘Luke’ & ‘View from the train to Wimbledon’.

Alcune volte prendi parte a conferenze e festival (come ad esempio il “Festival For The Post-Digital Creation Culture”). Che tipo di suggerimenti dai ai giovani fotografi? Qual è il peggior trend oggi nella fotografia?
Seguire il tuo cuore e solo questo. Non ci sono mezze misure, non esiste la mediocrità. Penso che il trend peggiore, non solo in fotografia ma nell’arte contemporanea occidentale in genere, sia la mancanza di concentrazione e come l’idea di un istante di gratificazione ci catturi. L’dea di dover lavorare duro e a lungo per ottenere il massimo dei risultati è andata persa.

Ho notato tutto ciò soprattutto avendo avuto a che fare con una giovanissima coinquilina con cui ho diviso casa negli ultimi mesi, un’aspirante attrice. Una ragazza adorabile, ma dannatamente pigra e totalmente incapace di finire qualsiasi cosa cominciasse.
So che nessuno vuol diventare così, ma crescere in un mondo dove tutto è già preparato e il sapere scorre facilmente sulle punta delle tue dita digitando su google, rende le persone pigre ed ignare del fatto che le cose non sempre sono come sembrano. Io penso che sia altamente importante avere memoria delle cose, costruire una conoscenza per poter poi utilizzarla come punto di riferimento; ovviamente anche io uso google ma tengo poi tutto a mente una volta che ho recepito l’informazione.
E lavoro molto duramente, io amo lavorare sodo.
Cosa mi dici dei tuoi prossimi progetti? So che sei anche una pittrice, pensi che dedicherai più tempo alla pittura? Hai in mente di pubblicare una tua raccolta fotografica?

Al momento mi sto concentrando principalmente su progetti fotografici personali. Alcuni di questi includono anche la pittura perché ci sono elementi in queste fotografie che vorrei enfatizzare attraverso gli sfondi. Le mie opere sono al momento visionabili al V&A insieme ai lavori di William Eggleston e John Badessari, c’è stata anche una personale presso l’istituto di cultura in Belgio ad Hasselt intorno gli inizi di maggio, che è stata tra l’altro parte del festival d’arte Coup de Ville, curato da Jan Hoet e Stef Van Bellingen, che si è appena concluso.
Sto aspettando per la migliore offerta per una personale o collettiva in Gran Bretagna e New York, e lentamente sto cercando un editore per pubblicare un libro per la mia serie fotografica “Splinter” (schegge).
Prima di lasciarti e salutarti mi piacerebbe sapere qual è l’ultima foto che hai fatto e che camera hai utilizzato…
L’ultimo scatto che ho fatto è stato per The Wire, ad un compositore chiamato David Bedford, sarà sul prossimo numero. Ho utilizzato una Mamiya 7 che è poi quella che utilizzo il più delle volte.
interview © Bruno Colajanni (www.ludag.com)
images © Eva Vermandel (www.evavermandel.com)
Eva Vermandel’s portrait © Joss McKinley (www.jossmckinley.com)