Viaggio intorno al mio studio è una rubrica che intende esplorare gli studi di artisti sospesi fra più discipline: dall’illustrazione alla grafica fino alla pittura.
Segue un andamento anarchico, non rispetta tempi, né associazioni prevedibili.
È solo il tentativo di capire se esiste una relazione fra il luogo dove si crea, la personalità dell’artista e il risultato finale, ossia l’opera. È un’incursione gentile in quello spazio intimo che come la nostra pelle, come ci spiega lo psicoanalista Didier Anzieu, permette a ognuno di noi di relazionarci agli altri e al contempo di difenderci da ciò che è estraneo.
Oggi incontriamo lo studio milanese di Gabriella Giandelli.
Assomiglia a un guscio dove scivolare e ripararsi quando è necessario. Per esempio quando finisce la pioggia e inizia la malinconia. O quando l’aria si impregna di una dolce “saudade” per la nostalgia di tutto ciò che non si è vissuto. Lo studio di Gabriella Giandelli, a pochi passi dal Carcere di San Vittore a Milano, è un grembo al riparo da tutto. Anche se si trova in una zona ormai troppo caotica e alla moda per una artista che non ha mai amato stare in vetrina, resta comunque un luogo intimo, affollato da quelle piccole cose che hanno una grande importanza. Qui è racchiuso tutto il suo mondo lavorativo.
«Nonostante non sia il primo studio» — racconta l’illustratrice — «è l’unico che sento davvero mio, il mio ventre di balena. Lo amo tantissimo, soprattutto quando fuori piove e sento le gocce che battono sul soffitto. Come se fossi in una vecchia casa di campagna».
Guardandomi intorno la prima cosa che noto sono le cassettiere — «lavorando con la carta non bastano mai, ne sono appena arrivate tre nuove perfette per i miei disegni più piccoli» — e le matite. Collocate sulla scrivania in grandi contenitori, e divise per colori che vanno dalle nuance pastello a quelle più audaci e squillanti, queste magnifiche Derwent, Caran d’Ache, Faber-Castell hanno un potere magnetico. Sono il medium scelto da Gabriella per tessere con pazienza le sue tavole. Rappresentano quello che per Penelope e le sue epigoni — Anni Albers, Sonia Delaunay, Maria Lai — erano fili, corde, tessuti. La tecnica è diversa, ma il modus operandi sembra simile. Anche Gabriella grazie a un gesto ripetitivo, rituale, catartico — «passo e ripasso i miei disegni in modo quasi sacrale» — dà vita a opere sorprendenti.
In quarant’anni di lavoro, l’illustratrice che ha esordito giovanissima pubblicando le prime tavole di fumetto su Alter Alter e Frigidaire, ha trovato un suo inconfondibile stile. Uno stile riconoscibile in tutte le sue numerose collaborazioni: dalle illustrazioni per le pagine culturali di La Repubblica a quelle per Internazionale, dalle copertine dei libri di Raymond Carver (da lei amatissimo) per Minimum Fax fino alle tavole realizzate per alcuni film come L’intrusa di Leonardo Di Costanzo, L’amore molesto di Mario Martone e La ragazza Carla di Alberto Saibene. Il cinema, del resto, è per Gabriella uno dei primi amori. «Dopo avere frequentato l’Istituto d’Arte, mi sono iscritta alla Scuola del Cinema di Milano» — mi racconta mostrandomi alcuni rulli di film realizzati in quegli anni. «E il cinema continua a essere una delle esperienze a cui avrei voluto dedicarmi. Ma non è stato possibile. Il mio carattere schivo, la mia timidezza, mi impediva di lavorare insieme agli altri, di esercitare una qualsiasi forma di leadership». E così Gabriella ha scelto il silenzio. Una routine solitaria che la fa sentire bene.
Qui, circondata da frammenti della sua esistenza, nascono le sue immagini dai tratti iperrealistici, dove piccoli oggetti del quotidiano, o animali fuori scala, prendono voce e raccontano delle storie.
Storie di qualche cosa che è appena accaduto o di qualche cosa che non accadrà mai.
Calati in luoghi apparentemente ordinari, ma in realtà appartenenti a un altrove misterioso, i piccoli dettagli disegnati da Gabriella, o le figure umane che abitano stanze vuote ed enigmatiche, sono i tasselli di un grande puzzle che restituisce la sua poetica.
Le sue atmosfere — degne di un set di David Lynch — hanno una potenza tale da farci entrare in mondo parallelo, un tempo sospeso dove l’assenza si manifesta con una forza inattesa.
Continuando a esplorare il rifugio di questa autrice segreta, trovo le tracce del suo privato. Uno scatto dall’amica fotografa Monica Fritz, un pastello di Lorenzo Mattotti, riferimento artistico e grande amico, un disegno della fumettista Francesca Ghermandi e gli scatti dedicati ai suoi adorati gatti. «Questo è quello di Maria Antonietta che è mancata nel 2021, mentre quest’altro è Felice, il felino di mia mamma». E poi ancora, una foto di lei e del marito Milco «quando ancora eravamo due fumatori», un manifesto realizzato per un Festival d’Animazione di Utrecht, i dischi di Nick Cave e una poltrona che la osserva quieta mentre lavora ed è pronta ad accudirla nell’ora del riposo.


