Viaggio intorno al mio studio: Beppe Giacobbe

Viaggio intorno al mio studio è una rubrica che intende esplorare gli studi di artisti sospesi fra più discipline: dall’illustrazione alla grafica fino alla pittura.
Segue un andamento anarchico, non rispetta tempi, né associazioni prevedibili.
È solo il tentativo di capire se esiste una relazione fra il luogo dove si crea, la personalità dell’artista e il risultato finale, ossia l’opera. È un’incursione gentile in quello spazio intimo che come la nostra pelle, come ci spiega lo psicoanalista Didier Anzieu, permette a ognuno di noi di relazionarci agli altri e al contempo di difenderci da ciò che è estraneo.

Oggi incontriamo i due studi di Beppe Giacobbe.

Due monitor, due tavoli pressoché identici, due pianoforti. È in due studi gemelli che germogliano quelle idee che prendendo vita e si trasformano in immagini “potenti”, come le definisce Charles Hively nella prefazione a Visionary Dictionary: Beppe Giacobbe from A to Z (Lazy Dog). Siamo al Lido di Venezia, dove si trova uno dei due studi di Beppe Giacobbe, illustratore e artista. L’altro studio è a Milano dove Beppe è nato e dove ritorna per impegni di lavoro, per visitare mostre o incontrare gli amici di lunga data e soprattutto per seguire gli studi di pianoforte jazz.

Beppe Giacobbe al Lido di Venezia

«Non ho più la necessità di vivere nel capoluogo meneghino, tutto ormai avviene a distanza, così insieme a mia moglie Agnese abbiamo deciso di trasferirci altrove, ma senza abbandonare la nostra prima casa». Un altrove che non è stato facile da identificare: «dopo avere girovagato a lungo tra i paesini del Monferrato, sull’Appennino, nel Salento, quando per caso abbiamo visto l’annuncio di questa casa al Lido, l’abbiamo sentita subito nostra». Un luogo che deve avere caratteristiche ben precise: «Nel mio studio non può mancare il pianoforte, uno spazio dove posso creare oggetti con le mani, e un computer». Così Beppe, che sa tradurre idee e testi in immagini così vivide che sembrano schizzare fuori dallo schermo del monitor per iniziare a vivere nella testa di chi le osserva, mi descrive lo spazio in cui ogni giorno dà vita ai suoi disegni eleganti, raffinati, popolati da figure che bisbigliano all’inconscio collettivo.

Sopra, e nelle immagini seguenti, lo studio al Lido di Venezia

È stato, infatti, uno dei primi illustratori a utilizzare le nuove tecnologie nel suo lavoro. «È grazie a Matteo Bologna, che da tempo vive a New York, se ho cambiato il mio modus operandi. Un giorno di tanti anni fa mi chiese di collaborare a un progetto per Mandarina Duck che seguiva insieme a Cristina Gitti e ad altri colleghi. Quando entrai nel loro studio vidi tanti tavoli con altrettanti computer e rimasi a bocca aperta: grazie a un Mac avrei potuto impaginare le copertine che facevo per il Club degli Editori (oggi non esiste più) in modo più efficace, avevo percepito immediatamente il grande potenziale del mezzo, ma allora c’erano programmi giurassici! Continuavo a disegnare in modo tradizionale, poi cominciai a scannerizzare dei fondi materici, e infine, con l’evoluzione dei programmi, sono passato completamente al digitale. È stato un processo lento ma inesorabile, simile a una pietra che rotola».

Sopra, e nelle immagini seguenti, lo studio al Lido di Venezia

Mentre Beppe riannoda i fili del suo passato, mi guardo intorno. La stanza sembra contenere moltitudini: è uno spazio intimo di religiosa concentrazione e nel contempo un tripudio di vitalità e allegria. Di fronte al tavolo con il grande monitor, c’è un mobiletto rosso su cui sono appoggiati due contenitori con pigmenti in polvere, pennarelli colorati, un’illustrazione di Olimpia Zagnoli, un’originale lampada di carta da lui realizzata. Appesa al muro un’illustrazione che rappresenta un uomo rannicchiato dentro a un carrello del supermercato, uno dei molti esempi di come Beppe Giacobbe riesca a comunicare in modo più immediato ed emozionante di quanto possa fare un articolo. Del resto, dopo 34 anni di collaborazione con La Lettura – Il Corriere della Sera — «Mi chiamò Gianluigi Colin nel 1989» — Beppe ha messo a punto il suo stile inconfondibile e ha dimostrato la potenza di un’illustrazione: suggerire, evocare, spingere a una riflessione profonda. Un contrappunto mai didascalico al testo a cui si accompagna. Una maestria che è frutto di tante esperienze diverse. Gli studi al liceo scientifico frequentato fra un concerto e l’altro «da giovane facevo parte di un gruppo rock, era bellissimo e suonavamo ovunque e fino a notte fonda», la formazione all’Accademia di Brera «anni magnifici, gli anni più belli, amicizie, lotte, contestazioni e viaggi» e infine gli studi a New York presso la prestigiosa School of Visual Arts dove insegnava Milton Glaser e dove c’erano tutti i migliori illustratori della rivoluzione grafica americana.

Sopra, e nell’immagine seguente, lo studio di Milano

«Lì ho preso coscienza di me. Anni dopo, nuovamente a New York, su consiglio di Andrea Ventura ho cercato un’agenzia e ho scelto la Morgan & Gaynin, la stessa che aveva rappresentato John Alcorn, il grande illustratore e grafico americano da sempre un mio mito. La collaborazione con Morgan & Gaynin è durata più di vent’anni con importanti clienti fra cui United Airlines, Harper Collins, The New Yorker, The Wall Street Journal. Allora si spedivano i bozzetti via fax e una volta ottenuta l’approvazione registravo tutto su un dischetto che inviavo con FedEx. Le immagini non viaggiavano via etere, ma ancora con la posta aerea!».
Un lavoro stimolante a cui si aggiunge il desiderio di esprimere estro e creatività anche in altre forme. Dalle immagini per copertine e quotidiani ai libri illustrati per l’infanzia, all’attività di docenza con dodici anni all’Istituto Europeo di Design e poi all’Isia di Urbino. «L’insegnamento è per me linfa vitale, è un dare e ricevere continuo, uno scambio come lo è la marea qui a Venezia. Ho avuto la fortuna di confrontarmi con generazioni di giovani molto vivaci e impegnati. Ho sempre in mente nuovi progetti di insegnamento».

Una linfa vitale che Beppe Giacobbe infonde anche nelle sue immagini capaci di far vivere nuovi mondi. Molte di queste le trovo girovagando nelle stanze del suo rifugio veneziano, in cucina vedo Social Media: una donna e un uomo le cui identità subiscono l’influenza di una miriade di relazioni spesso soffocanti e invasive. Altre le posso ammirare nella seconda tappa del mio piccolo reportage, quando Beppe mi apre le porte della sua casa milanese. Un’abitazione ampia, bianca, luminosa, piena di libri e di ricordi che vengono da lontano. Si percepisce lo scorrere di una vita armoniosa. Anche qui c’è uno studio con un tavolo, un grande schermo, un pianoforte. Tutto ciò che serve per trasformare un’intuizione in una composizione sempre sorprendente. Il fondo rosso dell’opera Scrittura su cui è adagiata una donna nuda dove le linee del corpo sono un susseguirsi di lettere dell’alfabeto, mi strappa un sorriso.

Lo studio di Milano

Beppe mi racconta altri aneddoti legati a opere, oggetti, presenze che si trovano in questo meraviglioso appartamento-studio. C’è una bella riproduzione dell’artista Morris Lewis, un piccolo nido di sottili fili di rame realizzato dall’artista iraniano Hossein Golba, un grande quadro chiaro dove si intravede il disegno di due scarpe slacciate; qui Beppe mi spiega che questa era una tavola che ha trovato per strada, forse il pannello di una porta. «Mi ha subito attratto, raccolgo sempre tante cose per terra. Così ho visto che questa tavola aveva dei graffi che rivelavano sotto una patina bianca, e come quando nostro figlio Marco era piccolo se trovavo del fil di ferro immediatamente li trasformavo in animali, qui con l’unghia ho disegnato di getto queste due scarpe. Forse è un mio autoritratto, quando mi interrogo sul “cosa resta”».

Sopra, e nell’immagine precedente, lo studio di Milano
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