Viaggio intorno al mio studio: Emi Ligabue

Viaggio intorno al mio studio è una nuova rubrica che intende esplorare gli studi di artisti sospesi fra più discipline: dall’illustrazione alla grafica fino alla pittura.
Seguirà un andamento anarchico, non rispetterà tempi, né associazioni prevedibili.
Sarà solo il tentativo di capire se esiste una relazione fra il luogo dove si crea, la personalità dell’artista e il risultato finale, ossia l’opera. Sarà un’incursione gentile in quello spazio intimo che come la nostra pelle, come ci spiega lo psicoanalista Didier Anzieu, permette a ognuno di noi di relazionarci agli altri e al contempo di difenderci da ciò che è estraneo.

Oggi incontriamo la casa di Emi Ligabue.
Un po’ abitazione, un po’ studio, la casa di Emi Ligabue è una scatola delle meraviglie colma di opere sue e di tutti i componenti della sua famiglia dove «ahinoi, non manca la creatività!». Accanto ai suoi lavori ci sono tracce del fotografo Miro Zagnoli e delle figlie Olimpia, illustratrice e artista fra le più ricercate del momento, ed Emilia, eclettica costumista. Un luogo che conserva le esperienze di Emi, un’instancabile flâneur che ha passeggiato nel mondo dell’arte con estrema libertà, senza precludersi nessuna esperienza che la interessasse. Come dimostrano le immagini che accompagnano questo piccolo viaggio nel suo mondo, firmate da Miro Zagnoli.

Se Emi Ligabue fosse una bambina, sono certa che avrebbe nelle tasche un bottino sgargiante e magico. Oggetti, carte, piccoli souvenir scovati chissà dove e raccolti con l’entusiasmo che solo i più piccoli nutrono per l’inedito, il casuale, il dettaglio che si annida fra le pieghe del reale. Lo capisco dopo avere gironzolato per la sua bellissima casa — «un’abitazione dall’impianto borghese perfetta perché era una base neutra che poteva accogliere la memoria di tante vite» — che si affaccia sul Parco Solari di Milano. Un po’ abitazione, un po’ studio, colma di opere sue e di tutti i componenti della sua famiglia dove «ahinoi, non manca la creatività!». Ci sono tracce lasciate dal fotografo Miro Zagnoli come una statua dedicata a Santa Rita — la santa dell’impossibile — «che Miro aveva acquistato per un set e poi ha lasciato qui perché non voleva portarsela via». Un vaso della figlia Olimpia, illustratrice e artista fra le più ricercate del momento e una giacca fatta con gli asciughini souvenir realizzata dall’altra figlia, Emilia, eclettica costumista. E, poi, soprattutto c’è una moltitudine di lavori che Emi ha realizzato lungo il corso della sua vita e che rappresentano il biglietto da visita di un’instancabile flâneur che ha passeggiato nel mondo dell’arte con estrema libertà, senza precludersi nessuna esperienza che la interessasse. La sua meravigliosa curiosità glielo avrebbe impedito.

Nata a Mantova nel 1957, Emi ha una formazione particolare. «Dopo il liceo classico, stanca di tradizione e intellettualismi, mi sono iscritta alla facoltà di Agraria, cosa che fa molto ridere perché sono assolutamente priva del pollice verde e sono in grado di far morire tutti i gerani del mio balconcino» — scherza. «Ma dato che dalle proprie fondamenta ci si può scostare solo per poco, sono tornata sui miei passi e mi sono interessata al design che per me rappresentava il risultato più tangibile delle diverse dimensioni che mi stavano a cuore: l’estetica, l’elemento tecnico, la progettazione, l’elemento sociale». Così per un anno Emi lavora nello studio Alchimia, fondato nel 1976 dai fratelli Alessandro e Adriana Guerriero e divenuto in breve tempo il primo esempio di gruppo di progettisti produttori che ha lavorato confrontandosi, sperimentando svariati ambiti: dalla creazione di oggetti di design e progetti di architettura a performance, set teatrali e fashion design, dalla produzione di video e suoni sperimentali.

«A quei tempi c’erano tutti» ricorda Emi «Alessandro Mendini, Paola Navone, Franco Raggi…». Dopo avere collaborato alla progettazione di Casa Alessi, Emi, che nel frattempo si era iscritta al Dams di Bologna, inizia un nuovo percorso che la porta a sperimentare sempre più anche grazie all’amicizia con Francesca Alinovi, critico d’arte, docente al Dams, donna di grande fascino e madre di quel particolare movimento che, sulla scia delle avanguardie della prima metà del Novecento, si aggiunge alla lista degli “Ismi”: l’Enfatismo. Presentato sulla rivista Flash Art in un articolo della stessa Alinovi durante l’estate del 1983, proprio durante quella estate la docente perse la vita, il movimento veniva descritto come “un gruppo diviso in sottogruppi smembrati in individualità egocentriche e esclusive. L’affinità nasce per simpatia, e la disciplina produce l’allergia. Il lavoro di tutti, però, è molto disciplinato e accuratamente progettato, e suona come sfida al dilettantismo di tanti artisti professionisti”. Simpatia e allegria che Emi porta come dote e che ha riversato in tutti i suoi lavori dedicati a esplorare il rapporto tra arti visive, arti applicate e arti minori e minime.

Difficile, dunque, imprigionare nella gabbia di una categoria il suo vagabondare fra le discipline e i materiali utilizzati, mentre ciò che serve per comprendere il suo estro è semplicemente ascoltare le sue parole: «Mi piace guardare, sono totalmente immersa nella dimensione visiva ed estetica, anche quella superficiale. E lo rivendico con orgoglio. Dato che, come affermava Arbasino, credo che l’originale si sia perso da tempo, e che tutti lavoriamo a tutti i livelli e in tutti i campi con del materiale che c’è già stato, io mi diverto incredibilmente a macinare e rimacinare come la semola tutto ciò che attira il mio sguardo».

Un’ode al tangibile, al tattile che scopro in ogni angolo di questo appartamento sovrastato da un incredibile lampadario che Gio Ponti disegnò per Venini. Angoli con bidoni di rotoli di plastica adesiva e di carta — «adoro la carta anche solo per la curiosità di vedere come si consuma» — libri finti che riproducono, su legno, l’essenza grafica e ciò che resta impresso negli occhi e nella memoria di storiche collane editoriali, fantasiosi ventagli, un bizzarro paravento e un interessantissimo lavoro (esposto a Villa delle Rose a Bologna nella mostra Spazio aperto al disegno) dedicato agli oggetti presenti nell’arte italiana del Novecento, divisi per categorie merceologiche: come i bicchieri estrapolati da Carlo Carrà, Filippo De Pisis e Giorgio Morandi e le uova disegnate da Felice Casorati e Piero Manzoni. E poi alcuni dei coloratissimi collage su carta o tela di piccole dimensioni esposti durante la mostra La settimana bianca, curata da Melania Gazzotti presso il centro culturale Mutty e raccolti nel relativo catalogo pubblicato da Lazy Dog. Un vivace racconto per immagini diviso in otto sezioni — composte da otto lavori ciascuna — fatto di profili di montagne, fotografie di note località turistiche, sagome di statuari sciatori, scii e racchette di altri tempi, scritte evocative e rétro, edelweiss in diverse fogge e con l’impiego di materiali inconsueti come carte da burro, plastiche adesive effetto finto legno, carte da lucido, carte metalliche e retini. «Un progetto che esprime un legame affettivo che mi lega alle montagne, ma che è nato soprattutto dalla particolare pregnanza e forza dell’immaginario legato a quei luoghi. Sono stati il mio lavoro e il mio approccio espressivo ad avvicinarmi al mondo dello sci e della settimana bianca tra le Alpi e non viceversa. Io lavoro sempre con immagini riprodotte, spesso banali. Immagini anche imprecise, ma comunque fortemente evocative».

Un amore per la montagna che trova conferma anche quando faccio capolino in cucina dove fra pentole e colori si trova il piccolo museo privato di una collezionista sui generis. Su una mensola sfilano, infatti, una serie di piccoli oggetti quasi tutti dedicati alla Svizzera il cui immaginario stereotipato non poteva che rapire Emi: cartoline, scatole di cioccolatini, miniature di mucche. Un mondo un po’ falso e un po’ vero, un gioco fra simulazione e invenzione che Emi ha sempre abitato fin da quando Denis Santachiara la invitò a partecipare alla mostra La Neomerce, Il design dell’invenzione e dell’estasi artificiale che si tenne alla Triennale dove l’artista mantovana espose un modellino del grattacielo AT&T appena ultimato a New York dall’architetto Philip Johnson, animato da suoni, luci e fumo. «Un progetto in cui esprimevo l’archetipo dell’incubo americano, ossia un incendio in un luogo chiuso da cui è impossibile fuggire. Il terrore americano di perdere il controllo». L’esempio più tangibile dei molteplici sguardi che Emi ha sulla realtà e sulla sua capacità di giocare con tutto ciò che la circonda senza smettere di offrire letture polisemiche che spingono a chiederci cosa possa pulsare sotto l’impermeabile superficie delle cose.

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