L’ambizione di disegnare tutto: intervista a Joëlle Jolivet

In questi giorni è uscito il nuovo numero (il 48º) di Hamelin, rivista curata dall’omonima associazione culturale bolognese che organizza il festival internazionale di fumetto BilBOlbul e si occupa di promozione culturale, percorsi di lettura per le scuole e laboratori.

Ogni numero del magazine ruota attorno a un tema, che in questo caso è il recente fenomeno degli albi illustrati di non-fiction, che finora occupavano una piccola nicchia nel panorama dell’editoria per bambini e ragazzi, ma che negli ultimi anni hanno visto una grande crescita, sia nella domanda che nell’offerta.

La copertina di Hamelin nº48. L’illustrazione è di Felix Bork
(courtesy: Hamelin)

Intitolato Le meraviglie, il volume raccoglie brevi saggi che vanno a indagare diversi aspetti del picturebook di non-fiction, importante — cito dall’editoriale di apertura — «perché mette al centro della riflessione una modalità di leggere il reale attraverso una diversa lente, che muove apparentemente in direzione opposta ai bisogni contemporanei di settorialità e utilitarismo: quella della meraviglia come generatrice di conoscenza».

Tra i contenuti di Hamelin nº48 c’è anche un’intervista realizzata da Matteo Gaspari, Giordana Piccinini, Ilaria Tontardini ed Emilio Varrà a Joëlle Jolivet, artista francese autrice e co-autrice di meravigliosi “cataloghi dell’esistente”, dai costumi agli animali, dagli strumenti musicali alle città.
Intervista che ripubblichiamo in versione integrale, su gentile concessione della redazione della rivista.


Joëlle Jolivet, “Costumes”, Les Grandes Personnes, 2013 (ed. originale Panama, 2007)
(courtesy: Joëlle Jolivet)

A guardare la tua produzione ci sono tre libri che hanno la natura di catalogo — dedicato ora agli animali, ora ai vestiti o addirittura a “quasi tutto”! — e si distinguono come dichiaratamente non-fiction: Presque Tout, Costumes e Zoo logique. Quando li hai fatti? Sono i primi tuoi libri?

No. Zoo logique l’ho fatto nel 2002. Poi ho fatto Presque Tout e dopo Costumes. Ma il mio primo libro l‘ho fatto nel 1995: Pas des violon pour le sorcières. Avevo già fatto altre cose prima, ma quello è il mio vero primo libro.

Quindi hai iniziato con la narrazione, con delle storie?

No, il primo era un abbecedario. Non ho mai fatto storie, non ho mai scritto. Non sono entrata in questo mestiere raccontando storie. Ne ho anche cercate fin dall’inizio per poterle illustrare, ma è difficile quando non conosci nessuno. In realtà i miei primi libri erano reportage nella collana Carnets du Monde. Non ero pagata troppo, ma era un ottimo modo per viaggiare gratuitamente. E poi questo abbecedario, Alphablock, che era un oggetto con carte in una scatola quadrata, un cubo. Dopo ho realizzato due albi di storie e infine Zoo logique. Ma l’intenzione che mi ha sempre accompagnato è stata quella di lavorare sull’idea e il metodo delle liste, secondo il modello di libro dell’imagier. Avevo visto quello di Le Saux e Solotareff, Maximagier, che era a forma di valigia ed era grande, come un dizionario universale per bambini. L’idea era bella, ma non mi piaceva il modo con cui era organizzato. Mi sono detta: «Voglio fare un imagier così, con tutto» e ho cominciato a fare liste, liste e liste. Già con gli animali sono arrivata a più di trecento, senza cercare. Dunque mi son detta «comincio con gli animali e poi vedremo». In realtà mi sono accorta che non c’era un libro su tutti gli animali, non esisteva. C’erano libri sulle scimmie, sui felini, ma non su tutti insieme. E quindi ho deciso di fare un libro grande, anche di formato, più grande di come poi è uscito. Pensavo anche che si sarebbe potuto appendere al muro. Ma era esagerato.

Joëlle Jolivet, “Zoo logique”, Seuil, 2004 (ed. italiana “Zoo logico”, Rizzoli, 2014)
(courtesy: Joëlle Jolivet)
Joëlle Jolivet, “Zoo logique”, Seuil, 2004 (ed. italiana “Zoo logico”, Rizzoli, 2014)
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Com’è nata l’idea di farlo così, di dividerlo in classificazioni inusuali come animali con le piume o bianchi e neri o giganti e minuscoli o ancora a macchie e a strisce?

Avevo i libri che abbiamo avuto tutti sugli animali, dell’Africa o dell’Europa. Ma non volevo mantenere questa distinzione geografica e ho cercato qualche idea per organizzarli in modo diverso. E di nuovo sono tornate le liste. La classificazione qui ha ancora una sua classicità, ma fin dall’inizio il problema è stato di fare delle scelte, perché non puoi mettere tutto. In Zoo logique sono riuscita a mettere tutti gli animali principali, ma con Presque Tout non era possibile e per ogni pagina dovevi pensare a un’organizzazione specifica che la giustificasse, ora per cronologia ora per tipologie. È stato un po’ complicato.

Ci sono tanti ordini diversi. Anche in matematica. Ci sono tanti modi di ordinare le cose e volevo trovarne uno un po’ originale, divertente.

Ci interrogavamo sul fatto che oltre alla logica della classificazione, ai modi di catalogare, c’è anche una questione di composizione, di come organizzare tutti gli elementi dentro la pagina. È interessante sapere quanto le due cose si combinavano. Quanto la composizione è venuta a posteriori, dopo la scelta, o quanto anche questa sia stata determinata dall’impianto visivo.

Dipende. Per Zoo logique in realtà è stato più facile perché gli animali puoi disporli con maggiore libertà, combinare il grande e il piccolo, il nero e il bianco. Ma ho sempre cercato di rispettare le proporzioni. Non ho mai fatto un animale più grande o più piccolo di quel che doveva essere in relazione a chi gli stava vicino. Per altri libri era molto complicato, perché ad esempio con le case non puoi cambiare forma né capovolgerle. In alcuni casi, come per le verdure o le piante era più facile, ma in generale è stato un processo complesso che prevedeva documentazione, disegno, scelta, organizzazione. Ce ne sono stati alcuni che ho abbandonato perché non c’era abbastanza posto, non erano abbastanza importanti, erano meno belli. C’era una negoziazione tra tutti questi fattori. Con Costumes ho potuto usare un formato un poco più largo, sapevo che le figure si sarebbero disposte su due file e così potevo inserirne un poco di più.
Anche lì ho evitato una classificazione geografica, ma ho tentato di trovare chiavi di classificazione diverse. Quello che a me interessava è la mescolanza. Mostrare per esempio che i Re hanno tutti piume e pelli, decorazioni simili, e che un Re francese del Seicento ha delle somiglianze con un capo indiano. Ci sono analogie tra una parte del mondo e l’altra, tra un’epoca e l’altra. Se fai solo costumi europei o cinesi non è tanto interessante quanto creare dei confronti.

Joëlle Jolivet, “Costumes”, Les Grandes Personnes, 2013 (ed. originale Panama, 2007)
(courtesy: Joëlle Jolivet)
Joëlle Jolivet, “Costumes”, Les Grandes Personnes, 2013 (ed. originale Panama, 2007)
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Ti interessa creare confusione nel lettore? Se uno pensa a delle liste immagina più a un tentativo di mettere ordine…

Ci sono tanti ordini diversi. Anche in matematica. Ci sono tanti modi di ordinare le cose e volevo trovarne uno un po’ originale, divertente. Anche qui ci sono delle idee che ho abbandonato. Ad esempio volevo fare una pagina sui costumi dei personaggi immaginari, ma per quelli dei supereroi ci sono problemi di diritti e ho lasciato perdere. Invece quando lo abbiamo ristampato ho fatto due nuove pagine con le uniformi e con i vestiti per il matrimonio.

Nel lettore cosa vuoi provocare? Più stupore, confusione o dare informazioni?

Mettere a confronto cose che normalmente non metti a confronto. Quindi sorprendere. Anche con le parole, perché ad esempio per le scarpe era bello che fossero tutte parole diverse. Mi sarebbe piaciuto anche fare un Vocabolario dei costumi perché ogni elemento ha un suo nome.

Per disegnare devi capire come sono fatte le cose, non puoi fare a caso. Sapere com’è fatto un corno, il numero giusto di corde sulla chitarra, e tutto questo richiede tempo.

In questo senso desideravamo chiederti anche della tua preoccupazione scientifica. Che tu ti documenti tantissimo, è evidente. Ma ci piacerebbe capire quanto ti interessa che tale lavoro di documentazione passi al lettore.

Molto. E bisogna anche pensare che quando ho fatto Zoo logique si era proprio all’inizio di Internet, non era così facile trovare informazioni sugli animali, non c’erano immagini. Ho dovuto trovare libri, andare allo zoo. Con Presque Tout c’erano già più materiali in rete, l’ho usata di più. Mi ricordo che per alcuni soggetti, come gli attrezzi per il cantiere, era molto facile trovare quello che cercavo. Ma per gli strumenti musicali, ad esempio, era meno semplice. Per disegnare devi capire come sono fatte le cose, non puoi fare a caso. Sapere com’è fatto un corno, il numero giusto di corde sulla chitarra, e tutto questo richiede tempo. Con i costumi è pure peggio… Trovare immagini di vestiti europei è facile, con tutta la pittura. Ma già con Cina e India è più difficile trovare immagini storiche. Qui in Francia c’era il Musée de l’Homme ma nel periodo in cui lavoravo al libro era chiuso, non aveva ancora aperto il Quai Branly e la biblioteca non si poteva consultare. Ho fatto tutto senza queste fonti, che erano molto importanti. Sugli Inuit ho trovato il libro di un esploratore che ha fatto tante foto, ma non riuscivo a capire come erano fatti costumi. Poi ne ho trovato un altro e ho capito ad esempio come le donne sostenevano i bambini attaccati al corpo.

Joëlle Jolivet, “Presque tout”, Seuil, 2004
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Al di là di trovare un’immagine che ti aiuta, utilizzi anche il disegno come modo per capire?

In una foto non vedi bene tutto, c’è sempre qualcosa di nascosto. I disegni, le pitture d’epoca, quelli vanno bene. E bisogna stare attenti. Se cerchi gli stivali dei moschettieri e guardi i film americani per capire come sono fatti, rischi di affidarti a qualcosa di falso. Gli stivali allora si piegavano molte volte, e quando si saliva sul cavallo venivano tirati su a protezione della gamba.

Uno sarebbe portato a pensare che sia la foto la “cosa che più ti restituisce la realtà”, ma non è così attendibile. Il disegno già analizza, trasforma in una sintesi o un simbolo, semplifica con le cose giuste.

Joëlle Jolivet, “Costumes”, Les Grandes Personnes, 2013 (ed. originale Panama, 2007)
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Quanto è durata la documentazione per Costumes?

Due anni, circa. Ho cercato cose belle, o interessanti o strane. Volevo fare un boia; l’immagine che ne hanno tutti con grossa cintura, cappuccio, non esiste. Non capisco da dove viene, perché il boia non ha mai avuto niente del genere. La nostra idea che nessuno conoscesse l’identità del boia non esisteva: tutti sapevano chi era. Non so in Italia, ma in Francia ci sono dinastie di boia, quelli che usavano la ghigliottina. Ho trovato uno studioso di genealogie dei boia e l’ho contattato su internet. Ho chiesto informazioni e lui mi ha detto che non ha mai trovato un costume simile, non esiste. Mi interessa anche questa confusione tra realtà e immaginario. Il problema con Internet adesso è che ti pare che ci sia tutto. Ma non è così, e anche quando la trovi non è detto che la definizione o il tipo di foto ti aiuti. Uno sarebbe portato a pensare che sia la foto la “cosa che più ti restituisce la realtà”, ma non è così attendibile. Il disegno già analizza, trasforma in una sintesi o un simbolo, semplifica con le cose giuste.

È interessante, se ci pensi, che nelle facoltà di medicina il disegno anatomico serviva proprio a questa cosa. Disegnando, capisci. E infatti gli atlanti di anatomia hanno i disegni, non le foto.

Esatto. Sono molto più precisi, analitici della fotografia. Un altro problema è che in tante ricerche storiche che trovi su internet non ci sono immagini, perché gli storici non si interessano alle figure. Come se a scrivere testi si fosse più attendibili che con le figure. Costumes è quello che mi ha preso più tempo. Ho capito perché non c’erano libri simili… Non ho fatto i costumi tradizionali, dell’Italia o della Francia, i costumi regionali. Avrei potuto fare una pagina solo di quelli, ma sono una finzione, sono tutti nati alla fine dell’Ottocento.

È interessante questa cosa, che c’è qui e in Presque Tout, di mettersi in relazione con la Storia.

C’è una relazione storica e una geografica. Cercavo di tenere un equilibrio tra tutto il mondo e tutti i tempi! Nella pagina sulle scarpe l’organizzazione va dalle più vecchie e semplici, proprio all’origine, fino alle più recenti. Guarda per esempio la similitudine tra quelle giapponesi, quelle di pelle fatte a mano, e le piccole veneziane.

Joëlle Jolivet, “Costumes”, Les Grandes Personnes, 2013 (ed. originale Panama, 2007)
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Quanto questi libri raccontano, hanno una relazione con la narrazione?

La narrazione è piuttosto dietro a quello che si dice. Per esempio quando tu mostri “donne con i pantaloni e uomini con la gonna” c’è un racconto che può partire. Ma non ci sono relazioni tra i personaggi. Piuttosto sono un supporto per sognare. Io ho passato tutti i miei mercoledì pomeriggio ad annoiarmi a casa dei miei nonni, guardando questo libro: un Larousse storico con la storia di Francia in due volumi. C’è una pagina con i costumi dal 1200 fino al 1400. Tutto in bianco e nero. Queste sono storie, c’è più interazione tra i personaggi, ma sono della stessa epoca.

Nei libri che hanno un approccio più narrativo, in cui il testo è di Jean-Luc Fromental con cui comunque hai un rapporto stretto e una lunga frequentazione, rimane questa tensione per la catalogazione, per le liste?

Piuttosto è l’ossessione per la documentazione. Io non riesco a inventare dal nulla, devo sempre accumulare informazioni, forme. Per esempio per Tenebrossa, per fare la città sono andata a cercare le case inglesi edwardiane, le tombe, le cripte familiari. Ogni volta che faccio un libro è così. In 10 p’tits pingouins autour du monde è tutto esatto: ad un certo punto c’è un aeroporto dell’Africa del Sud e l’ho disegnato come è, i costumi dei poliziotti sono giusti, anche se il racconto è lontano dalla realtà e piuttosto semplice. Forse ho fatto troppi libri documentari, sono ossessionata dall’idea di mettere cose sbagliate. Se sono cose che esistono, le devo fare come sono. In Moby Dick non si può fare la barca per la caccia alla balena con 5 remi, se in realtà sono 6. Mi fa arrabbiare quando vedo libri che hanno immagini fatte senza ricerca. Tanto più per Moby Dick che è già una sorta di libro documentario. Tenebrossa è un libro fantastico, ma parto dalla realtà, non riesco a farne a meno. Come per giocare con il Lego, mi servono i mattoncini giusti.

Sono ossessionata dall’idea di mettere cose sbagliate. Se sono cose che esistono, le devo fare come sono. In Moby Dick non si può fare la barca per la caccia alla balena con 5 remi, se in realtà sono 6. Mi fa arrabbiare quando vedo libri che hanno immagini fatte senza ricerca.

Ti è mai venuta voglia di fare al contrario? Mentre parlavi mi veniva in mente la fantascienza. Inventare una cosa che però sembri vera?

Sì, mi piacerebbe molto. Se tutto il libro fosse come il Codex Seraphinianus, sarebbe bello, ma non so se ne sarei capace.

Joëlle Jolivet, “Presque tout”, Seuil, 2004
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Pensavamo ai libri che hai dedicato alle città, Bologna, Parigi, quello che stai preparando su New York. Da una parte c’è questo discorso della documentazione e della fedeltà alla realtà; dall’altra ci sono molto spesso visioni panoramiche. È un tuo modo di guardare?

Nei libri ho questo approccio di visione, che porta alla distorsione. A distorcere la prospettiva per fare entrare le cose. È il mio problema di voler mettere dentro sempre tutto. Anche in Oups! dove ci sono tre o quattro azioni che si svolgono simultaneamente in luoghi diversi, tutto accade nella città reale, anche se avrei potuto ambientarlo in una città immaginaria. Collocare la storia a Parigi vuol dire anche giocare con una visione mentale dei posti interessanti di una città. Quando ho fatto il libro su Parigi, le panoramiche che ho scelto le ho viste prima nella mia testa. Per esempio mi sono detta che nel tredicesimo arrondissement era interessante la compresenza tra questi grandi palazzi dell’alta società e piccole case basse, con insegne cinesi. Volevo trovare un posto dove si potesse vedere tutto e alla fine l’ho ricomposto io. Per la pagina dedicata all’Opera è lo stesso, la visione che ho fatto è dall’alto, ma non ho trovato una foto panoramica da questa prospettiva e ho provato a ricostruirla. Quando conosco le cose ho una visione mentale del posto. Nel libro che sto facendo su New York è diverso perché ancora non ho una visione generale. C’è un momento in cui devi fare delle scelte, perché non puoi dire tutto e io provo sempre a mettere tutto, tutte le informazioni nella stessa immagine ed è un po’ complicato.

Se c’è qualcosa di reale, deve essere reale. Non hai il diritto di dire cose false. Forse io ho un problema con le bugie.

Alla fine il tuo lavoro è tutto in qualche modo basato su fonti precise, documentarie, ma questo discorso mette in crisi tutte le distinzioni che si fanno tra fiction e non-fiction. C’è sempre una finzione.

C’è anche non-fiction nella finzione. Se guardo un film ambientato negli anni Trenta, io ci credo. Se scopro che è sbagliato, non sono contenta. Qualche volta si vede che la visione è un po’ poetica, soggettiva, ma se c’è qualcosa di reale, deve essere reale. Non hai il diritto di dire cose false. Forse io ho un problema con le bugie. E qui si pone un altro problema: forse non sono bugie, ma si è semplicemente scelto cosa mostrare, sono un modo per dire «questo è importante e questo no».

Una delle cose che ci interessa molto è la tecnica compositiva. Tutti gli elementi nascono come pezzi singoli, o insieme?

No, no. Nascono tutti insieme. Sarebbe troppo difficile poi incastrare tutti i pezzi del puzzle. Se ho un momento in cui non riesco a mettere tutto insieme, taglio gli schizzi e vedo cosa non funziona.

Joëlle Jolivet, “Presque tout”, Seuil, 2004
(courtesy: Joëlle Jolivet)

Per come sono composte le pagine è vero che c’è la precisione di ogni singolo elemento, e lo vai a vedere. Ma c’è anche la tavola, di livello estetico altissimo, potentissima, con un impatto che provoca grande meraviglia. E fa pensare a un rapporto tra ordine e disordine nei tuoi libri. In Paris, Oups! o in Rapido — libri più o meno narrativi ma tutti ambientati in città — c’è un rapporto tra la precisione del singolo elemento e la simultaneità degli eventi, tra l’orientarsi e il perdersi.

Puoi guardare il mio studio! È organizzato come con le liste. In realtà è un “disordine organizzato”. Potrebbe essere un po’ più organizzato… comincio a perdermi nel mio disordine, ma normalmente so dove si trova tutto. Anche nei libri penso sia uguale: c’è un’organizzazione, ma pare disordine.

Per me i bambini sanno leggere le immagini, sanno trovare cose piccolissime, vedere le relazioni tra le cose. Mentre gli adulti spesso non vedono, guardano e basta, non entrano nella pagina, non esplorano.

I bambini che leggono questi libri passano delle ore su una tavola. È una narrazione che richiede di “stare lì”. Il giropagina è quasi inutile, si ha dopo tanto tempo che sei stato su una pagina. E sono infinite le possibilità di decidere cosa guardare. Potrebbe essere che «oggi guardo quel coccodrillo lì», ci sto due ore; è vero che ho la visione di insieme, ma oggi mi interessa solo quel coccodrillo. Il giorno dopo invece sto tutto il giorno su questa foca. È come se ogni elemento aprisse delle possibilità. Un modo di leggere che non è adulto, perché un adulto non sta a guardare una foca per un pomeriggio. È un altro modo di raccontare.

Per me i bambini sanno leggere le immagini, sanno trovare cose piccolissime, vedere le relazioni tra le cose. Mentre gli adulti spesso non vedono, guardano e basta, non entrano nella pagina, non esplorano. A un festival, non ricordo dove, c’erano un sacco di autori, stavamo tutti stretti, e io ero lì col mio grande libro. Accanto a me non ricordo chi c’era, ma parlava molto, vendeva molto e io invece non avevo nessuno. Ad un certo momento sono comparse due piccole mani da sotto il tavolo. Era un bambino che ha afferrato il libro e ci si è seduto sopra. «Ho vinto! Questo era quello che volevo».

Joëlle Jolivet, “Presque tout”, Seuil, 2004
(courtesy: Joëlle Jolivet)
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