È sempre difficile parlare di disabilità. Ci vuole incisività, ma nello stesso tempo cautela, delicatezza, riguardo, a garantire rispetto e cura.
È ancora necessario parlare di disabilità? Sì e si devono trovare le parole giuste per farlo, gli strumenti, i mezzi. Può esserlo un albo illustrato? Io penso di sì.
Da quando mi sono imbattuta in Che cos’è una sindrome? di Giovanni Colaneri edito da Uovonero edizioni. Mi ha talmente colpito nella sua fulminea essenzialità, da spingermi a cercare Giovanni e a parlare con lui del libro.
Ecco cosa ci siamo detti.
So che dietro a Che cos’è una sindrome? c’è un progetto di tesi per l’ISIA di Urbino, ma quello che mi viene da chiederti è: come nasce la tua tesi e come nasce poi il libro per i tipi di Uovonero edizioni?
In realtà Che cos’è una sindrome? è proprio la mia tesi di illustrazione all’ISIA di Urbino, che poi è stata pubblicata da Uovonero a settembre di quest’anno. Font e dimensioni del libro a parte, il progetto è rimasto lo stesso.
Per raccontare come nasce, dobbiamo tornare indietro nel tempo di qualche anno, precisamente al febbraio 2016. Quell’anno stavo frequentando gli ultimi corsi all’ISIA e, insieme ai miei compagni di classe, ho partecipato a un workshop dal titolo Figure inclusive: un altro sguardo. Disabilità tra pensieri, parole, segni e disegni. A tenerlo c’era Gusti, illustratore argentino e persona meravigliosa, che ha condiviso con noi i momenti più rappresentativi della vita di tutti i giorni con suo figlio Mallko, nato con la sindrome di Down.
Ricollego questa esperienza alla nascita del libro perché quello per me è stato molto più di un laboratorio di illustrazione; nel corso di quel workshop in me è scattato qualcosa, quel qualcosa che poi mi ha spinto a proseguire e approfondire il tema fino a creare Che cos’è una sindrome.
Anche io sono rimasta travolta dalla bellezza sconvolgente di Mallko e papà.
Cosa ti ha spinto a pensare che fosse necessario dedicare la tua prima pubblicazione ad un tema che da molti è considerato così controverso?
Ho voluto lavorare su un tema così complesso e articolato perché ritengo che ci sia bisogno di parlarne. Oggi più che mai c’è la necessità di libri in grado di educare alle differenze e che portino il lettore a superare gli stereotipi leggendo.
A parte questo, non saprei dire con precisione cosa mi abbia spinto, di sicuro qualcosa nel profondo che sentivo di dover tirare fuori e condividere.
Sei riuscito a rappresentare un tema così ostico operando un processo di assoluta semplificazione simbolica. Come ci sei arrivato?
Nel momento in cui ho dovuto scegliere l’argomento per la tesi, non avevo dubbi che avrei voluto realizzare un libro che parlasse di disabilità e di inclusione. Un primo esperimento è stato Dove sei piccolo Giulio, un albo illustrato senza parole realizzato per un esame e nel quale raccontavo la giornata di un bambino autistico vissuta dalla sua interiorità.
Quindi continuare questo percorso mi sembrava giusto ma, vista la complessità, ero abbastanza intimorito. Avevo individuato Silvana Sola come relatrice, ma non sapevo da dove cominciare. Così sono ripartito da quel workshop, da un esercizio che avevamo fatto con Gusti. Questo consisteva nel rappresentare, su un foglio piegato a fisarmonica, una sindrome partendo dalla sua diagnosi. Al termine, tutti questi elaborati sono stati uniti insieme per realizzare una raccolta di sindromi, un sindromario.
A questo punto mi sono chiesto se volessi realizzarne uno mio. Ho escluso questa possibilità dato l’alto numero di sindromi documentate e per la volontà di non escluderne nessuna, ma soprattutto perché volevo trattare l’argomento da un punto di vista non scientifico, senza fare riferimento alla patologia, per evitare che la persona si identificasse con la sindrome. Volevo realizzare un libro che ponesse l’accento sulle persone con una sindrome, mettendo al centro l’individuo, che ha una propria identità e un proprio sentire. Ho voluto lavorare sul concetto di sindrome inteso in senso ampio per sottolineare come una sindrome sia qualcosa che ci riguarda tutte e tutti.
Ho iniziato ad individuare quindi le parole chiave che secondo me potessero rispondere alla domanda «che cos’è una sindrome?», la stessa che, in fondo, ad un certo punto mi ero posto io all’inizio di questo lavoro. Parole che potessero includere e trattare l’argomento sotto ogni aspetto possibile. Spero di esserci riuscito.
Quale definizione di sindrome ti corrisponde di più per affinità e qual è quella che hai rappresentato con maggiore difficoltà?
Credo che in me ci sia ogni aspetto che ho provato a rappresentare, che ho cercato di tirare fuori. La maggiore difficoltà l’ho incontrata quando ho scritto la doppia pagina di testo [le due pagine in cui si definisce cosa si intenda per sindrome, ndr] che, in qualche modo, cerca di chiudere il cerchio e fare il punto della situazione su tutto il libro. Quasi sempre, trovare le parole giuste è la cosa più difficile.
A conclusione del tuo albo c’è una pagina con un enorme punto interrogativo. Come a voler dire: il problema è tutt’altro che risolto? Con quali altre parole vorresti che continuasse la storia di Che cos’è una sindrome?
L’ho rappresentato pieno, rispetto a quello della prima pagina. E forse l’ho disegnato così simbolicamente, nella speranza di aver riempito in qualche modo quello vuoto dell’inizio. Le parole contenute nel libro sono le risposte che io ho provato a dare, ma senza dubbio ce ne sono molte altre possibili. A novembre, infatti, ho tenuto un laboratorio per adulti dal titolo Mi riguarda, ti riguarda, ci riguarda – le parole della diversità alla libreria Giannino Stoppani a Bologna.
Qui, in sostanza, ho invitato i partecipanti a trovare ulteriori parole da aggiungere e ho chiesto loro di provare a disegnarle, come una sorta di prosieguo del libro. «Un disequilibrio», «un tunnel da attraversare», «una piccola o grande fragilità» erano alcune di queste. È stato un momento di condivisione molto interessante, dal quale sono venute fuori altre parole molto belle e significative.
La ricchezza delle tue tavole illustrate ben si sposa con la ricchezza e la complessità del tema trattato. È un gesto di corrispondenza voluto o è il tuo modo consueto di disegnare?
Credo sia il mio modo consueto di disegnare, accentuato dalla complessità del tema.
Quindi è come se soffrissi a lasciare qualche spazio bianco?
Non saprei, a guardami con occhio esterno direi di soffrire di horror vacui per la necessità che avverto di riempire le mie illustrazioni il più possibile. Ma col tempo ho imparato ad accettare anche questo.
Qual è la tecnica con cui lavori?
Disegno in tecnica mista, sempre e solo con pennarelli (a base d’alcool o base d’acqua o acrilici) e matita su carta, scansiono e poi lavoro l’immagine in digitale. Gestisco il colore, più che altro. A volte sposto qualcosa, ma non è mai un vero e proprio lavoro digitale. Anche se alla fine lo diventa.
Mi piacerebbe poter lavorare direttamente in digitale, ma non riesco a rinunciare al profumo dei pennarelli e alla sensazione che dà la matita sulla carta.
Cosa posso vedere nelle tue tavole? Quali riferimenti pensi si possano cogliere? Io per esempio ci ho visto, non so perché, un richiamo all’arte precolombiana.
Credo di trascinarmi questa cosa dell’antichità dalle elementari, perché già allora andavo pazzo anche per l’antico Egitto.
Non che ora la cosa sia diversa però, se devo, ci aggiungo anche la pittura fiamminga, l’arte barocca, i surrealisti, l’arte americana e ho un amore incondizionato per David Hockney, che spero di incontrare presto. Tutti questi elementi sono certamente fonte di ispirazione per me, ma in realtà io sono influenzato principalmente dal mondo che mi circonda.
Quando ho lavorato al libro, per esempio, mi ero appena trasferito a Napoli, capitale della diversità e del sentire. Credo che si possa cogliere anche questo dalle tavole del libro.
Stai già lavorando ad un nuovo progetto, magari sempre con Uovonero?
Ho nuovi progetti in cantiere ma non mi sento di dare annunci per il momento. Per scaramanzia, non per altro. Con Uovonero per ora ci stiamo dedicando a Che cos’è una sindrome? ma spero di poter collaborare nuovamente con loro su un nuovo progetto.