«Un’intricata e geniale resa dei conti con il passato. Nata tre decenni dopo l’Olocausto, [l’autrice] traccia i silenzi ostinati della vita tedesca e indaga il ruolo avuto dalla sua stessa famiglia nella guerra. Il libro prende la forma di un album stracolmo, pieno di lettere, fotografie, documenti ufficiali e frammenti delle riviste dell’infanzia di suo zio — scarabocchi di fiori, bandiere e svastiche», scrive Parul Sehgal, critica letteraria del New York Times, in un articolo dedicato al nuovo graphic novel/memoir visivo di Nora Krug.
Autrice e illustratrice tedesco-americana, già vincitrice di alcuni principali premi nell’ambito dell’illustrazione, Krug ha lavorato per anni a quest’opera, raccogliendo documenti, foto e cimeli. Dopo aver vissuto per un ventennio negli Stati Uniti, è tornata in Germania per cercare di capire quale fosse stato il ruolo della sua famiglia in epoca nazista e provare a rispondere a una domanda cruciale: «Chi saremmo stati se la guerra non fosse mai accaduta?»
Uscito originariamente in inglese con il titolo di Belonging, il libro è stato tradotto nelle edizioni internazionali con Heimat, un termine tedesco che non ha un corrispettivo preciso nella nostra lingua. I dizionari suggeriscono casa, piccola patria o luogo natio, ma nessuna di queste ne coglie tutte le sfumature, che vanno da quelle affettive a quelle più nazionaliste.
In Germania è diventata una parola di destra. Come il nostro Patria, che il grande storico e germanista Furio Jesi nel suo saggio del 1979 Cultura di destra definiva, insieme a concetti come Spirito, Razza, Sangue, Terra, Tradizione, “idee senza parole”, cioè indibattibili: quelle che — come spiega Enrico Manera, studioso di Jesi — sono «retoriche del sublime, monumentali e celebrative che legittimano la sfera politica riferendosi al passato e imitando il linguaggio del sacro. Alludono e non spiegano nulla».
Considerato come uno dei migliori libri del 2018, in Italia Heimat è stato pubblicato a settembre 2019 da Einaudi Editore, con la traduzione di Giovanna Granato.
Il libro e Nora Krug sono anche tra i protagonisti della nuova edizione del Festival Internazionale di Fumetto BilBOlbul, a Bologna, dal 29 novembre al 1° dicembre 2019.
Il festival dedicherà infatti ad Heimat una grande mostra presso il Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, mentre presso la Galleria Portanova12 sarà in esposizione una retrospettiva sull’artista.
L’autrice, inoltre, terrà due incontri, uno il 30 novembre presso l’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Bologna e uno il 1° dicembre presso la Sala conferenze del MAMbo Museo d’Arte Moderna di Bologna (tutte le informazioni sugli eventi sono qui).
Proprio in occasione del festival, abbiamo l’onore di pubblicare qui su Frizzifrizzi un’esclusiva intervista a Nora Krug, realizzata da Giordana Piccinini, Ilaria Tontardini ed Emilio Varrà di Hamelin, l’associazione culturale che da tredici anni organizza il BilBOlbul.
La prima domanda riguarda la fase iniziale di scrittura di Heimat. Ci sono stati momenti in cui hai pensato: “Questo deve diventare un libro”? E quali sono le prime cose che hai fatto?
Credo che l’idea del libro sia stata graduale: ho lavorato per diversi anni a brevi biografie visive di persone che hanno vissuto la guerra, persone che non sono eroi, vittime o combattenti della resistenza. Sono sempre stata interessata alla gente comune: le loro esperienze di guerra non si sentono spesso, non sono abbastanza spettacolari da essere riproposte in un film, ma è esattamente il tipo di persone a cui sono interessata. Se non tentiamo di comprenderle, non possiamo comprendere davvero la guerra, credo. Perciò ho creato una serie di storie sulle vite di persone che hanno vissuto la guerra: francesi, kamikaze giapponesi, un soldato americano che fu stanziato in Corea del Sud… Ma mai tedeschi. Dopo aver lavorato a queste storie, ho capito di aver sempre evitato di raccontare la storia dal punto di vista di un tedesco perché sentivo di non averne il diritto. Poi ho capito che dovevo farlo perché c’erano molte domande a cui non sapevo dare risposta.
La cosa che mi ha spinta ad andare avanti è stato il tempo in cui ho vissuto all’estero e, come tedesca tra non tedeschi, sono stata molto più a contatto con la mia eredità culturale e con la storia del mio Paese. Quando la guerra viene raccontata a livello istituzionale, non ti senti davvero obbligato a chiederti cosa sia accaduto alla tua famiglia, perché tutti erano coinvolti, la maggior parte delle persone fa parte della categoria della gente comune. Penso che questo sia il problema, e vivendo negli Stati Uniti ho dovuto confrontarmi sempre di più con gli stereotipi negativi sull’identità tedesca. Spesso mi venivano fatte domande sulla mia famiglia a cui non sapevo rispondere. Poi ho avuto un incontro con alcune anziane signore, che ho inserito all’inizio del libro perché credo abbia contribuito alla scrittura e mi abbia resa più consapevole del fatto che il passato è parte del presente. Stando davanti a quelle persone, ho capito l’importanza di conservare i ricordi e mantenerli vivi.
La mia ricerca è stata sia una ricerca generale sulla Seconda Guerra Mondiale sia una ricerca sulla mia città natale, Karlsruhe, della cui storia non sapevo nulla. Alla New York Public Library ho trovato un libro sul bombardamento scritto dal mio insegnante di fisica. Ci raccontava sempre storie simili, ma lo faceva in modo così divertente che quando eravamo adolescenti ci ridevamo su. Ritrovare il suo libro è stata una strana coincidenza: ho capito cosa significa davvero un ricordo.
Ho trascorso due anni a condurre una ricerca sulla mia famiglia, sulla città da cui provenivano i miei nonni e mio zio, ho chiesto alle persone che li conoscevano e così ho trovato il coraggio di scrivere. Penso che parte del processo di ricerca fosse capire che potevo raccontare una storia per il pubblico americano. La mia più grande preoccupazione era che questo libro potesse essere frainteso, che desse l’idea che volessi vittimizzare i tedeschi o che stessi cercando di liberarmi dalla storia e dalle mie responsabilità. Nella fase iniziale, non sapevo come raccontare la guerra da una prospettiva tedesca senza rievocare quelle sensazioni. E non sapevo se il pubblico tedesco avrebbe avuto interesse per un libro di questo tipo. Credevo che avrebbero pensato che il mio fosse l’ennesimo libro su questo argomento, ma in Germania Heimat ha riscosso un interesse maggiore rispetto ad ogni altro paese e questo mi ha fatto molto piacere.
Heimat non è di facile lettura. Hai pensato fin dall’inizio a una struttura così complessa o l’idea ti è venuta solo successivamente?
Ci ho pensato fin dall’inizio, mi è sembrata la forma più naturale per questo libro. In parte è stata una decisione concettuale, perché pensavo ai ricordi e alla loro natura frammentaria, un insieme di momenti ed esperienze individuali non cronologiche, né solide e immutabili. La storia è anche un’esperienza molto personale e il ricordo è qualcosa di incoerente, a cui ripensiamo e che cambiamo di volta in volta. Volevo trasferire tutto questo sia nella scrittura — che infatti è frammentaria — sia nel mezzo visivo.
Spesso le persone mi chiedono: «Perché hai fatto un graphic novel?»
Perché il ricordo è fortemente visivo, così come la memoria collettiva. In parte è stata anche una decisione tecnica, perché volevo liberarmi del formato tradizionale del graphic novel: lo trovavo limitante, e non volevo sentirmi costretta a rispettare la stessa struttura a ogni pagina e a ogni capitolo. Pensavo anche che così sarebbe stato troppo diretto, e non volevo presentarmi da protagonista. Inoltre, non volevo ripetere nelle immagini ciò che era già nel testo, volevo liberarmi da questa struttura visiva.
Come sei riuscita a controllare questa frammentarietà? Credo sia molto facile perdersi lungo la strada.
Dopo due anni di ricerche, ne ho trascorsi altri soltanto scrivendo e la grande domanda che mi ponevo mentre scrivevo era: «Come posso collegare l’aspetto personale e quello politico? E il passato con il presente?».
È stato il dubbio più grande per me, come scrittrice. Ho capito che ogni capitolo, ogni momento della storia richiede una diversa forma di espressione. Per esempio, ho deciso che avrei presentato le parti che parlano della mia famiglia come un fumetto: volevo semplificarle visivamente in modo che guardandole fosse chiaro che non riguardavano il presente di Nora, ma le esperienze di qualche altro membro della famiglia.
Usi molto la tecnica del testo o delle immagini che scompaiono. Mentre leggi, il testo svanisce e poi torna, come una perdita della memoria, ed è un elemento davvero forte perché dà un’idea del tempo, del ricordo.
Vedo il testo come un’estensione dell’immagine, mi piace combinarli come una singola unità. Perciò uso il testo come un’illustrazione. Una recensione del New York Times ha messo in evidenza che il mio libro è di difficile lettura. L’autore pensava che l’avessi fatto di proposito: non è così, ma è una bella spiegazione! Non si può scorrere velocemente il testo, si è costretti a rallentare e l’illeggibilità spinge a guardare più da vicino.
Vedo il linguaggio del fumetto come un tentativo di creare una genealogia, una biografia, di dare un senso al passato, come se mettere le cose in ordine fosse una tua esigenza personale. Si percepisce con l’irruzione delle fotografie, che è l’irruzione della realtà.
Ho impiegato due anni a scrivere il libro, poi sono passata ai disegni. C’erano momenti in cui sentivo di avere davvero bisogno delle fotografie, pensavo che vedere l’istante esatto fosse più importante e interessante di vedere i miei disegni. Penso alle fotografie dei tedeschi nei campi, ai primi conflitti: ho pensato fosse più potente mostrare questi momenti sotto forma di fotografie, perché rivelano l’esatto momento di disillusione dei tedeschi. E volevo creare un accesso diretto al passato, includendo all’interno del libro alcune copie dei documenti che mio nonno aveva tenuto tra le mani settant’anni prima. È molto più efficace che scriverne o disegnarlo in un fumetto.
Per me, Heimat è un libro sulla distanza. Uno degli aspetti più forti che ho percepito è il senso della distanza e l’intento di volerla ridurre, ma l’impossibilità di poterlo fare.
Per me è stato un modo di guardare da una certa distanza — una distanza temporale, geografica, ma anche generazionale. Essere distante è un modo per essere più vicino. L’atto stesso della scrittura e del disegno sono un modo per prendere le distanze e rendere tutto più universale. Infatti, non penso che avrei mai avuto il coraggio di incontrare la mia famiglia se non avessi deciso di scrivere questo libro, perché il libro mi ha permesso di prendere le distanze, si è messo nel mezzo, tra loro e me. Quando ho incontrato per la prima volta la mia famiglia, l’ho fatto in qualità di giornalista. Ho sempre avuto il desiderio di incontrarli ma non sapevo come fare, e il libro mi ha permesso di prendere le distanze e al tempo stesso di essere vicina a loro.
Tu fai moltissime liste. Che relazione c’è tra domande e liste? Perché questi due modi differenti di porre delle domande? Le liste sono un tentativo di mettere ordine?
Le liste e le pagine enciclopediche sono un tentativo quasi ironico: so che non si può definire l’identità tedesca in modo chiaro, ma ciò che le enciclopedie fanno è proprio cercare di dare un senso al mondo. Sappiamo che il mondo non funziona nel modo in cui se ne parla in un’enciclopedia; tuttavia, le enciclopedie ci aiutano a vedere le cose da una certa distanza, offrono uno sguardo esterno sul mondo.
Credo che, soprattutto per i tedeschi, sia importante guardare a certi oggetti dalla prospettiva di qualcuno che ha lasciato la Germania. Ho anche catalogato le risposte nella mia mente, come una lista: volevo assicurarmi di non perdere queste informazioni. La memoria è un elemento così prezioso.
È molto forte l’importanza che tu dai alla parola, l’importanza che dai al giusto utilizzo delle parole.
Sì, il linguaggio è un elemento davvero potente, è una questione culturale ma anche politica. Per questo nell’edizione finale del libro ho deciso di inserire alcune parole inventate dai nazisti. Le parole accadono ancor prima delle azioni, possono essere molto pericolose.