Yayoi Kusama: pattern coloratissimi e vertiginosi al centro dei quali collocarsi serafica e anch’essa caleidoscopica. Zucche di tutte le dimensioni che tornano ossessivamente come l’ortaggio perfetto, centinaia di specchi in grado di riflettere luce e immagini senza fine. E poi pois, su animali, corpi nudi o vestiti, mobili, qualsiasi superficie concepibile. A condurre un’indagine profonda sul concetto di percezione del cosmo e dell’infinito e allo stesso tempo celebrazione della bellezza della vita. Strumento per entrare in contatto con ciò che per definizione non ha limiti. Depersonalizzazione e avvicinamento all’assoluto.
Quale occasione migliore per onorare un’artista così straordinaria che l’uscita per i tipi di Fatatrac di una biografia illustrata dal titolo Yayoy Kusama. Da qui all’infinito, le cui autrici sono Sarah Suzuki e Ellen Weinstein?
Anche questa, come la precedente dedicata a Sonia Delaunay (della quale avevo parlato qui), appartiene alla collana I grandi albi MOMA.
Il libro racconta la passione per l’arte che ispirò la Kusama fin da bambina. Si sofferma a descrivere la città Matsumoto e le sue montagne, tanto care all’artista, che tornò a visitarle a distanza di anni una volta rientrata in Giappone.
Vediamo la Kusama persa a disegnare in mezzo a fiori più grandi di lei, fiori che con i loro colori brillanti e vivaci avrebbero poi espresso, nella sua arte, il senso di rigenerazione e transizione del ciclo naturale.
L’albo si sofferma sulle difficoltà di relazione con la madre, che l’avrebbe voluta donna di casa e sposa, e con le regole dell’Accademia d’arte, con le quali si scontreranno la sua vitalità e l’originalità della sua opera.
È nel 1929 che Yayoi deciderà di “seguire la propria stella” (è lei stessa a definirla tale nella sua autobiografia) verso New York, luogo lontano ma insieme simbolo di libertà di espressione. L’albo ce la mostra sola sul tetto dell’Empire State Building a contemplare un mondo nel quale ogni cosa che desidera pare essere alla sua portata.
«Quando mi sentivo triste, salivo sull’Empire State Building. […] In cima al più alto grattacielo esistente all’epoca sentivo che ogni cosa era possibile. Un giorno, lì a New York, avrei stretto tutto ciò che volevo in quelle mie mani vuote. […] Il mio impegno per attuare una rivoluzione nell’arte era tale che sentivo il sangue ribollire nelle vene, e dimenticavo la fame».
Yayoi Kusama, “Infinity net. La mia autobiografia”, Johan & Levi, 2013
La osserviamo lavorare alacremente ai suoi quadri, anche quando i dollari sono finiti e il poco che le resta è destinato a tele e colori. Ogni sforzo della Kusama sarà teso a completare una delle sue opere più celebri The Infinity Net.
Da qui il passo alla Biennale di Venezia ci appare brevissimo, con il suo Narcissus Garden (presentato per la prima volta alla Biennale del ’66) e The Yellow Pumpkin, elemento che tornerà costantemente nelle sue istallazioni, e così la sua popolarità e il suo successo che si diffonderanno presto in tutto il mondo.
L’albo si conclude con il suo ritorno in Giappone, nel quale l’arte si è aperta finalmente — come lei sperava — al cambiamento, e con lei che continuerà a dipingere nel suo studio ogni giorno i suoi amati e necessari pois.
Ad arricchire la pubblicazione, già valorizzata dalle illustrazioni di Ellen Wenstein, le foto delle sue opere, da The Infinity Mirrored Room – The Souls of Millions of Light Years Away (2012) a The Obliteration Room (2002).
Come ogni Grande Albo del Moma, Yayoi Kusama — Da qui all’infinito si rivela un ottimo spunto per incuriosire su una grande artista così controversa e prolifica.