Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione” Laboratori Artistici Nicoli, Carrara, 1835 (© Thomas Quintavalle)

Intervista a Thomas Quintavalle, che gira l’Italia per fotografare le aziende familiari che esistono da oltre 100 anni

Ci sono storie che ti colpiscono, incuriosiscono, stupiscono, in cui ti immedesimi e riconosci e che per questo vorresti raccontare bene, così bene che ti sale una certa ansia da prestazione, che rischia di bloccarti e non fartele raccontare mai.
Thomas Quintavalle è il protagonista di una di queste storie. Le nostre strade si sono incontrate per la prima volta nel 2013, quando Ethel lo intervistò per la nostra vecchia rubrica 7am, ma io non me ne ricordai quando l’estate scorsa ci scrisse per raccontarci il suo progetto. Una progetto fotografico che aveva come protagoniste una mia grande passione degli ultimi anni: le aziende familiari ultra-centenarie italiane.

Thomas è un fotografo, ha 42 anni, una laurea in giurisprudenza conseguita nel 2005 a Ferrara.
Nel 1995, ha avuto un brutto incidente stradale che lo ha costretto sulla sedia a rotelle e che, scrive lui stesso in una delle tante email che ci siamo scambiati, «senza dubbio rappresenta uno spartiacque nella mia vita. Tutti gli eventi traumatici finiscono per farci parlare di un prima e di un dopo.. Il prima è senza dubbio il ricordo di una vita normale come quella di tante altre persone, il dopo è invece la storia di chi ha ricominciato da zero o quasi ed è riuscito a rimettersi in gioco, ottenendo successi ed insuccessi, ma con una percezione diversa, credo più consapevole della parola vita».

Oggi finalmente dopo quasi un anno è arrivato il giorno per raccontarvi di Thomas e del suo progetto Le mani della tradizione attraverso una serie di domande.

* * *

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Seguso Vetri d’Arte, Venezia, 1397
(© Thomas Quintavalle)

Da quando ti occupi di fotografia?

Io faccio il fotografo dal 2012, inizialmente per passione personale. Fotografavo soprattuto cibo, perché è una cosa molto complessa e mi stimolava la sfida. È stato molto istruttivo. Poi mi sono trasferito a Berlino e qui ho iniziato a gironzolare per la città ed immortalare scene di quotidianità.
Ho avuto una breve fase architettonica, ma più che gli edifici a colpirmi sono state le persone, perché Berlino è una città che “è stata scelta”: non si viene a Berlino per caso, questa città non conosce l’immigrazione per necessità, di chi è in cerca di lavoro, come altre città industriali della Germania. A Berlino non ci sono industrie, anzi qui il lavoro scarseggia, tanta gente arriva con pretese artistiche e nella maggioranza dei casi finisce per lavorare nella gastronomia, ma la gente che si è trasferita qui, soprattutto in alcuni quartieri, arriva da tutto il mondo ed è una fonte pazzesca d’ispirazione.
Nelle passeggiate che facevo con la mia sedia a rotelle venivano fuori delle bellissime storie, dei flash di vita quotidiana.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Calzaturificio Voltan, Stra (Ve), 1898
(© Thomas Quintavalle)

Prima il cibo e le “storie berlinesi”, quindi è nato il progetto Le mani della tradizione, mi racconti come?

Ho iniziato a fare fotografie molto tardi, perciò avevo la necessità di concretizzare velocemente, per arrivare nel più breve tempo possibile a raggiungere degli obiettivi; non avevo più venti anni, con tutto il tempo per fare, imparare, sbagliare.
Non mi ero mai troppo interessato di fotografia di architettura, né mi ero occupato ad alcun titolo delle imprese storiche, fatta eccezione per un articolo che lessi, credo nel 2008, che parlava del primato delle imprese storiche italiane e che mi aveva suscitato una certa curiosità.
Volevo realizzare, da fotografo, un progetto interessante, su una realtà che io non conoscevo affatto, volevo che venissero fuori delle belle foto ma soprattutto volevo che venisse fuori il racconto di qualcosa di concreto, volevo che venissero fuori la storia, le persone.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Ubaldo Grazia Maioliche, Deruta (Pg), 1500
(© Thomas Quintavalle)

Di che anno parliamo?

Le mani della tradizione è nato nel 2013.
Grazie a questo progetto in poco tempo sono arrivati riconoscimenti, sono nate collaborazioni molto belle, anche con delle Università, partendo dalla fotografia.
A dire il vero io ad un certo punto speravo di riuscire a creare un network tra le imprese storiche, tra le realtà che avevo avuto modo di raccontare attraverso il mio obiettivo, ma non ci sono riuscito perché da noi in Italia è difficile riuscire a mettere insieme, in collaborazione, le imprese.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Oreficeria Torrini, Firenze, 1369
(© Thomas Quintavalle)

Esiste il Registro italiano delle aziende storiche di Union Camere ma in pratica credo serva a poco niente.

Sì. Gli unici che sono riusciti a fare network sono delle aziende, prevalentemente toscane (anche perché forse è la regione che ha più imprese storiche), che fanno capo ad un’associazione che si chiama UISI.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Distilleria Girolamo Luxardo, Torreglia (Pd), 1821
(© Thomas Quintavalle)

Torniamo al progetto, curiosità a parte, come ha preso forma l’idea di fotografare proprio le imprese storiche?

L’idea di raccontare le imprese storiche italiane si è paradossalmente sviluppata in Germania, perché la Germania è un paese in cui si valorizza qualunque cosa si faccia. I tedeschi non la enfatizzano, come altri, ma la raccontano, la propongo per farla vedere a tutto il mondo. L’Italia invece ha il grande difetto di non raccontare. Al di là dei soliti nomi noti, molto resta celato.
Così io ho pensato di raccontare le aziende per immagini, in un viaggio intorno al prodotto italiano che non riguarda per forza il cliente ma lo “spettatore comune”, che nonostante non potrà sempre accedere attivamente a tutti questi prodotti ne diventa in qualche modo soggetto attivo.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Antica Stamperia Pascucci, Giambettola (Fc), 1826
(© Thomas Quintavalle)

Molti dei soggetti delle tue foto sono artigiani al lavoro.

Con le mie fotografie ho cercato di catturare due universi apparentemente in antitesi, quello “aristocratico” del prodotto finale e quello “democratico” che dà spazio agli artigiani, agli operai e che aiuta, da un lato gli italiani a riconoscersi nella qualità, e dall’altro rappresenta quel plusvalore che ci distingue in tutto il mondo.
Raccontando i lavoratori e i luoghi, ero convinto di riuscire a coinvolgere maggiormente le persone: ogni italiano ha avuto un nonno, un papà, uno zio artigiano o operaio e quindi sarebbe stato più semplice identificarsi.
Ne è venuto fuori un lavoro bello dal punto di vista del racconto, infatti i tanti complimenti e riconoscimenti che sono arrivati, non riguardano solo la fotografia, ma sono per aver provocato emozioni, ricordi che suscitano il senso di appartenenza. Perché le persone che lavorano in queste aziende, che a volte sono piccolissime, altre molto grandi, hanno l’orgoglio di far parte di queste realtà economiche.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Piacenza Cashmere, Pollone (Bi), 1733
(© Thomas Quintavalle)

Fammi un esempio dell’orgoglio di cui parli.

L’orgoglio, per esempio, di far parte della Piacenza Cachemire, che a Pollone ha donato una parte del Parco aziendale al Comune, perché venisse tutelata la biodiversità delle specie vegetali.
Queste aziende hanno sempre grande attenzione per l’ambiente. Tieni presente che molte volte queste sono anche imprese all’avanguardia dal punto di vista ecologico, quello che loro prendono viene restituito al territorio minimizzando l’impatto ambientale.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Cantiere Nautico Crosera, Portegrandi (Ve), 1855
(© Thomas Quintavalle)

Anche perché sono aziende che estremamente legate al territorio, che hanno dato lavoro a tante persone a volte a paesi interi e ne hanno cambiato il tessuto economico oltreché la storia. Ci sono territori che si sono sviluppati ed evoluti proprio grazie alla presenza di queste aziende storiche, che hanno avuto ricadute sulla formazione, sul know-how, sulla capacità artigianale. E poi non dimentichiamo che queste imprese non hanno, alla prima occasione, dislocato in Romania o in altri paesi in via di sviluppo, ma hanno continuato a lavorare lì dove erano nate.

Infatti.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Pontificia Fonderia Marinelli, Agnone (Is), 1000
(© Thomas Quintavalle)

Come è cambiato il progetto rispetto alla tua idea iniziale? Si è in qualche modo evoluto man mano che sei venuto in contatto con queste realtà?

Quando ho iniziato, fotografando le prime cinque aziende, io non conoscevo affatto questo mondo, ed ero più emozionato. Il mio poi era un vero salto nel buio anche perché, essendo sulla sedia a rotelle, mi chiedevo anche se ce l’avrei fatta a gironzolare tra queste realtà produttive che immaginavo vecchie e, per me, inaccessibili. Quindi il primo problema era proprio di riuscire fisicamente ad accedere per raccontare, ma mi hanno stupito per il contrario. L’azienda più vecchia d’Italia, la Pontificia Fonderia Marinelli, in provincia di Isernia, che risale all’anno mille, è perfettamente accessibile con la sedia a rotelle.
Andando avanti in questo percorso ho concentrato l’attenzione (anche fotografica) su alcuni aspetti che prima ignoravo, per esempio l’architettura industriale.
In alcune aziende ho prestato più attenzione al luogo, all’architettura, in altre più alla gente, ai titolari, ai lavoratori.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Nardini Distilleria a Vapore, Bassano del Grappa (Vi), 1779
(© Thomas Quintavalle)

Mi fai qualche esempio?

La Nardini ha investito molto nell’ospitalità del turismo industriale, coinvolgendo anche un grande architetto come Fuksas, perché hanno intuito che grande business è portare le persone nel posto dove si produce, con una accoglienza adeguata. In questa azienda, la parte dell’accoglienza ti colpisce più della parte della produzione, che è abbastanza meccanizzata.
Nella maggior parte dei casi, invece, ciò che mi ha colpito maggiormente è il lato emotivo, il sentimento, per esempio di chi produce le gondole (la Camuffo di Portogruaro), lì il vecchio proprietario con il suo assistente mi hanno colpito molto, come anche i dettagli.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Cantiere Navale Camuffo, Portogruaro (Ve), 1438
(© Thomas Quintavalle)

Che tipo di approccio hai usato?

Ho cercato di riprodurre l’emozione, attraverso una foto che può anche non essere perfetta per esposizione o altro, ma suscita emozione e si resta catturati dallo sguardo, dalle mani.
Ci sono persone di cui si vedono solo gli occhi far capolino mentre il resto è completamente nascosto dietro un telai al lavoro. Ho cercato di mantenere uno sguardo curioso, in modo che ogni visita fosse una scoperta, e non farmi distrarre da questo mondo che conoscevo sempre meglio.
Altra cosa su cui mi piace soffermarmi sono i luoghi, perché queste imprese sono anche i luoghi che li ospitano, per esempio, il Campanificio Marinelli senza le montagne, le case basse, il piccolo centro in cui tutti si conoscono non sarebbe il Campanificio.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Pastificio Artigianale Fabbri, Strada in Chianti (Fi), 1893
(© Thomas Quintavalle)

Come sei venuto in contatto con le aziende che hai visitato e fotografato, come le hai scelte?

Io ho contattato le aziende attraverso una breve email in cui spiegavo le mie intenzioni, in modo anche un po’ confuso perché non avevo ben in mente cosa sarebbe poi accaduto, ma ho ricevuto subito un grande entusiasmo. Poi, paradossalmente, quando invece il progetto era già ben strutturato, quando già c’erano stati i primi riconoscimenti, le prime esposizioni importanti, per esempio delle foto permanentemente espose al Ministero dello Sviluppo Economico, ho trovato molta più diffidenza. Come la paura di mettersi a fare una cosa troppo strutturata, troppo grande.
A quel punto la domanda ricorrente è diventata: «ma quanto viene a costarci?». Forse questa diffidenza è il motivo per cui queste realtà non sono poi così conosciute, magari si conoscono i prodotti ma non le realtà, la loro storia.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Bianchi 1770 Group, Conegliano (Tv), 1770
(© Thomas Quintavalle)

Vero! A fronte di poche realtà bravissime a raccontarsi e disponibili a farsi raccontare, ce ne sono molte altre che non sanno farlo, non vogliono farlo e non te lo lasciano neppure fare.
Parliamo di Venezia, dove ora le tue opere sono in mostra fino a settembre. Cosa sta accadendo?

A Venezia il 7 luglio è stata inaugurata un’esposizione di 13 fotografie, ospitata a Palazzo Zenobio, che è proprietà degli Armeni dal 1851, ed è sede anche del Padiglione del Tibet. Un po’ una provocazione visto che il Tibet non è riconosciuto come Stato ma viene ospitato in questa sede, nel circuito fuori biennale.
La collocazione di questa mostra, che va avanti fino al 29 settembre, mi piace molto, perché questo Palazzo è il luogo dove gli eroici Armeni, scappati dall’Impero Ottomano, sono stati accolti dai veneziani.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Lanificio G.B. Conte, Schio (Ve), 1757
(© Thomas Quintavalle)

Eroici come molte delle imprese che hai fotografato.

Sì, si devono costantemente confrontare con l’economia del mordi e fuggi in cui è facilissimo aprire e ancor più semplice chiudere ed andare via. Le imprese storiche sono comunque delle realtà economiche che sopravvivono in modo testardo ed indipendente, non seguendo le logiche del capitalismo d’assalto, ma seguendo una linea antica, senza lanciarsi in avventure per guadagnare di più, ma ancorate ai valori familiari ed al territorio.
La famiglia spende il suo nome e lo fa da centinaia di anni, quindi nessun erede vuole sputtanarlo, tutti hanno l’orgoglio di farne parte, non solo la proprietà, ma anche i lavoratori di queste aziende.
Sanno di aver contribuito alla crescita sociale e culturale dei luoghi dove sono nate e si sono sviluppate. Ho conosciuto una bellissima realtà che è un lanificio di Schio, il Lanificio Conte, adesso il lanificio storico è diventato un museo, però il trisavolo dell’attuale proprietario aveva costruito delle casine per gli operai con attorno dei piccoli orti in modo che gli operai, che erano di estrazione contadina, finito il lavoro in fabbrica, potessero coltivare (e non andare al bar come da modello inglese!). Costruì anche un asilo e una palestra. Imprenditori del ‘700 più lungimiranti di quelli di oggi.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Antica Confetteria Romanengo, Genova, 1780
(© Thomas Quintavalle)

Aggiungerei anche che, in linea di massima, queste aziende non hanno preso contributi statali per star su ma hanno costantemente speso i loro soldi, reinvestito, ed hanno dovuto anche saper annusare l’aria, studiare i cambiamenti economici e sociali e cambiare, adeguarsi prima di altri per poter restare in vita.
Di recente ho letto e mi ha colpito molto un’affermazione di Giovanni Filicori (della storica torrefazione Filicori Zecchini di Bologna – 1919). Secondo lui ogni generazione non deve gestire l’azienda per il proprio arricchimento, ma deve lavorare per assicurare il futuro a quella che seguirà, e solo così un impresa può andare avanti. Io l’ho trovato estremamente romantico in un momento in cui nessuno, neppure i genitori, pare preoccuparsi di ciò che sarà dopo di loro.

Romantico sì, ma anche redditizio, funzionale all’economia, perché magari non c’è grande guadagno ma un guadagno costante!

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Tramontin & Figli, Venezia, 1884
(© Thomas Quintavalle)

Che criterio hai usato per scegliere le aziende?

I parametri che avevo preso in considerazione fin dall’inizio erano due: più di cento anni di storia e la stessa famiglia dall’anno della fondazione. Questi due criteri hanno comunque scremato molto il numero di aziende che potevano interessarmi, perché ovviamente ci sono tante aziende storiche che però hanno cambiato paternità, fino a quelle poi finite in mano ai grandi gruppi, magari stranieri.
Inizialmente, sono partito con una ricerca online poi anche una sorta di passaparola tra gli stessi imprenditori, magari l’amico rassicurava dicendo “tranquillo non ti fa perdere tempo, puoi farlo venire…”.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Confetteria Mucci Giovanni, Andria, 1894
(© Thomas Quintavalle)

Ti sei focalizzato su alcuni territori in particolare.

La scelta dei territori è stata abbastanza casuale: Veneto, Toscana e Puglia. Quest’ultima mi è piaciuta tanto, perché lì ho lavorato con l’AIPAI, Associazione Italiana del Patrimonio Archeologico Industriale, un gruppo di professionisti o professori universitari che si occupa del patrimonio archeologico industriale italiano.
Sono entrato in contatto con un architetto di Lecce, che conoscendo il carattere di queste persone mi ha messo in contatto con il produttore di saponi, di vini e con la confetteria.
Prima mi hanno mandato dei documenti da leggere, in modo che io arrivassi conoscendo già il territorio, e poi mi hanno aperto le porte delle loro aziende. Per esempio, io non sapevo che Maglie tra ‘800 e ‘900 era uno dei distretti economici più importanti del paese.
Purtroppo, però, non sono riuscito a raccontare tutto!

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Lanificio Paoletti, Follina (Tv), 1795
(© Thomas Quintavalle)

Anche perché immagino che tu non abbia degli sponsor.

No, magari! Le mostre sono state organizzate in collaborazione con associazioni o imprese, ma per il resto no e non è semplice.
C’è uno scarso interesse istituzionale nel raccontare delle aziende storiche. Pare che di loro ci si debba occupare solo quando poi cambiano di mano passando a proprietà straniere. Ma finché sono in vita l’interesse, salvo rari casi, è scarsissimo. Ed è così anche a livello di enti locali.
Però queste aziende suscitano molto interesse nelle persone comuni! Ogni volta che ho allestito le mostre, ritirando i libri degli ospiti mi sono quasi commosso per le dediche. Come già detto, queste sono imprese molto “sentite” sul territorio, perché hanno dato lavoro a generazioni e generazioni, ne hanno cambiato le sorti, l’economia, le hanno formate, sviluppando anche un know-how che non era possibile sviluppare diversamente.
A questo si deve aggiunger un altro dato: è vero, noi siamo Italiani, ma siamo ancora prima Veneti, Calabresi ecc.
E ancora più nello specifico anche nel mio Veneto siamo Trevigiani, Veneziani, Veronesi… Quindi raccontare l’identità del luogo per noi italiani resta comunque molto importante.
E sono attività e racconti, questi, che sarebbe facilissimo sovvenzionare da parte del pubblico e anche a costi moderati, ma non si fa.

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Leone de Castris, Salice Salentino (Le), 1665
(© Thomas Quintavalle)

Le istituzioni a tutti i livelli non le aiutano, loro spesso restano in sordina e non si raccontano (non sanno o non vogliono raccontarsi) ma allora qual è, secondo te, il segreto di queste aziende, il loro elisir di lunga vita?

La capacità di adattarsi ai cambiamenti, questa per secoli è stata la loro forza, non è importante produrre tanto, guadagnare tanto, ma sapere cambiare nel momento in cui cambia il vento, prima della catastrofe.
Sono tutte aziende che hanno vissuto epoche non facili, a cavallo tra le due guerre mondiali, epoche che hanno cambiato il mondo. Alcuni mi hanno raccontato che le guerre hanno migliorato le cose. Per esempio Leone De Castris: loro fornivano le loro bottiglie per la birra dell’esercito alleato, o un calzaturificio della riviera del Brenta che forniva le scarpe per gli alpini durante la prima guerra mondiale.
La sensazione che si ha venendo a contatto con queste realtà è quella di aprire uno scrigno e trovarne dentro un altro e poi un altro e un altro ancora, in un complicato incastro di matrioske e bellissime scoperte, in cui la storia dell’azienda si apre sulla storia della famiglia, che apre alla storia di un luogo, di un territorio, su storia industriale ed evoluzione…
I campi di interesse che si incrociano sono tanti dalla fotografia all’economia al prodotto.

Il lato emotivo per esempio, secondo me, è molto affascinante. Io chiedo sempre alla quinta, sesta generazione, quanto peso e responsabilità si sentono addosso, sapendo, spesso fin da piccolissimi, che lavoro saranno chiamati a fare da grandi, e avendo la responsabilità di non mandare in malora quello che generazioni e generazioni prima di loro hanno costruito.
Una sorta di predestinazione. Alcuni tentano di allontanarsi ma poi tornano.

Sì, per fortuna ritornano!

Thomas Quintavalle, “Le mani della tradizione”
Laboratori Artistici Nicoli, Carrara, 1835
(© Thomas Quintavalle)
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