Nato a Ginevra, in Svizzera, nel 1975, Nicolas Grospierre ha un percorso di studi piuttosto anomalo per un fotografo: laureato in economia e in scienze politiche, ha cominciato ad appassionarsi di architettura fin dai primi anni 2000 e da allora ha costruito una carriera di successo attorno a una fotografia d’architettura che sconfina spesso e volentieri nei territori dell’installazione artistica, e che va oltre la semplice documentazione delle strutture costruite dall’uomo, andando anche alla ricerca di ciò che un edificio simboleggia a livello economico, politico e sociale, in base a com’è stato progettato, dov’è stato eretto, perché, su commissione di chi.
Fin dal 2013, inoltre, Grospierre gestisce due Tumblr, uno dedicato alle foto d’interni (che però non è più aggiornato da oltre un anno) e uno, molto più interessante, intitolato A subjective atlas of modern architecture.

Proprio da quest’ultimo è stato tratto un libro, Modern Forms, pubblicato da Prestel. Una sorta di atlante fotografico—come suggerisce il sottotitolo A Subjective Atlas of 20th-century Architecture, che rimanda al tumblr—che è anche un omaggio all’architettura modernista, e non soltanto quella più conosciuta.
La struttura dell’opera, infatti, non si sviluppa cronologicamente, geograficamente o in sezioni dedicate a tutti quei maestri che hanno contribuito a definire gran parte dell’architettura Novecento. Modern Forms, piuttosto, segue una sottile linea rossa tracciata dalle similitudini tra le forme delle costruzioni, mettendo fianco a fianco edifici celebri in tutto il mondo e fabbricati sconosciuti, apparentemente anonimi (ma che ritrovano dignità nell’accostamento tra loro), progettati da chissà chi, per un totale di quasi 200 foto che mostrano edifici sparsi tra quattro continenti (manca l’Oceania) realizzati tra gli anni ’20 e il 1989.

Secondo Grospierre il modernismo «ha incarnato uno dei più begli ideali dell’umanità: il progresso».
E il suo libro è una schizofrenica e affascinante mappatura di questo movimento che—come spiega lo stesso autore in questo pezzo pubblicato su Dezeen—in architettura «ha usato un linguaggio che può essere ritrovato praticamente in ogni nazione, a dispetto dell’errata opinione che considera uno stile architettonico assolutamente tipico di un paese».


