Quando ho mandato a Simone le foto per quest'articolo gli ho scritto: «Allora, la macchina l'ho rubata a Carlotta e - visto che lei è molto gelosa delle sue cose - le foto le ho fatte in fretta e di nascosto. Non ho fatto scansioni, perché volevo fare sentire il libro. Alcune, fanno cagare, lo so. Forse tutte, vedi tu».

Oltrepensare: intervista a Giuseppe “Iosonopipo” Palmisano

Quando ho mandato a Simone le foto per quest'articolo gli ho scritto: «Allora, la macchina l'ho rubata a Carlotta e - visto che lei è molto gelosa delle sue cose - le foto le ho fatte in fretta e di nascosto. Non ho fatto scansioni, perché volevo fare sentire il libro. Alcune, fanno cagare, lo so. Forse tutte, vedi tu».
Quando ho mandato a Simone le foto per quest’articolo gli ho scritto: «Allora, la macchina l’ho rubata a Carlotta e – visto che lei è molto gelosa delle sue cose – le foto le ho fatte in fretta e di nascosto. Non ho fatto scansioni, perché volevo fare sentire il libro.
Alcune, fanno cagare, lo so. Forse tutte, vedi tu».

Giuseppe Palmisano, Iosonopipo, non ha molta fortuna col Natale. Sembra uno di quei film in cui al protagonista succede qualsiasi cosa, mentre intorno tutti si divertono tantissimo e cantano canzoni retrò senza conoscerne le parole, coi cappelli rossi in testa e un maglione con le renne ricamate addosso.

Era andato a Genova a recuperare qualche copia di Oltrepensare, il libro appena pubblicato da Habanero, per distribuirla ad amici e parenti — voglio dire, anche una buona azione — ma i suoi treni hanno accumulato un ritardo di circa 75 minuti. Disservizio che la Società ti rimborsa con poco più di una pacca sulla spalla, le dita delle mani a pistola e l’occhiolino come promessa di grandi progetti per il futuro.
La buona notizia, a quel punto, poteva essere che i menu offerti da Trenitalia sui treni veloci venivano eccezionalmente offerti al prezzo di 1 euro, anziché 9. Purtroppo, ehi, erano tutti finiti. Rimaneva solo quello della colazione. Di cui lui, come atto di protesta, ha comunque voluto usufruire. Anche se erano già le cinque del pomeriggio. E anche se era già a rischio iperglicemia.

A questo, si aggiunge il fatto che, per coprire le ultime spese, ha dovuto vendere la macchina fotografica. Il che, tecnicamente, lo rende un fotografo anomalo, perché privo del principale strumento di lavoro. Non che alla fine conti molto, dal momento che lui non si considera un fotografo, ma un attore interessato all’atto fotografico che organizza concerti e sa usare i social network. Però, insomma, fai un libro fotografico e vendi la macchina fotografica. Forse è un contrappasso per fargli pagare la scomodità alla quale costringe i suoi soggetti. Ma non suona bene.

Tutta questa storia fa sì che io decida di andarlo a prelevare in macchina in stazione, tacendogli il fatto che un’inquietante spia gialla con l’icona della chiave inglese innaturalmente grande in rapporto alla riproduzione dell’automobile con la quale fa coppia mina il buon esito di una delle poche note positive della giornata. Me lo porto a casa, anziché nel locale dove avremmo dovuto vederci, lo metto a sedere e gli offro un tè e delle sigarette. Se fossero delle nazionali, sembrerebbe il dopoguerra. E invece è un’intervista. E il mio cane nemmeno lo sbrana.

* * *

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Visto che siamo qui, in questa casa, a quest’ora, principalmente per colpa di questo libro, direi di cominciare proprio da lui. Perché ora e perché con Habanero?

Perché ora a dicembre o perché in questo momento storico?

La seconda, direi. Immagino che tu sia giunto ad un punto della tua produzione che ti ha portato a pensare di dovere o potere fare un libro…

Di base credo che, per qualsiasi cosa mi riguardi, non ci sia mai una costruzione o una pianificazione così profonda. C’è più un pensiero estemporaneo. O meglio, una domanda che io faccio a me stesso e — visto che Iosonopipo è una pagina Facebook — a partire da una richiesta che mi è arrivata da chi quella pagina la segue.
Ci ho riflettuto e molto semplicemente ho lanciato l’idea. «E se facessi un libro?». Non mi aspettavo una risposta così positiva, in termini di commenti e di “intenzioni d’acquisto”. Ma non c’è un vero e proprio percorso. Anche perché questa fase fotografica, in realtà, ha due anni di vita e arriva dopo un periodo in cui non prendevo in considerazione l’idea di lavorare con le persone.
A dire il vero, pensavo che non avrei mai scattato fotografie con delle persone. Quindi, la produzione raccolta nel libro non è neanche tanto vasta da giustificarne l’idea. Diciamo che è stata la risposta del pubblico potenziale a convincermi dell’opportunità. Stesso discorso per la scelta dell’editore. Avevo bisogno di qualcuno che pubblicasse il libro. Io sono un impedito, le cose non riesco a farle da solo, ho bisogno di una mano. Tu mi sei venuto a prendere in stazione. Sento l’umanità, in questo senso. Mi piace che un progetto coinvolga più persone. Il primo, per questioni di relazioni pregresse — Manuele di Habanero organizza concerti — è stato proprio Habanero. Ho proposto loro la cosa e, visto che stavano pensando di cominciare la collana di libri fotografici — il primo è stato quello degli Ex Otago — hanno accettato. Per me, la cosa era fatta. Io sono immediato e pigro.

Quindi, nasce tutto dalla pigrizia.

Per riassumere…

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Da quello che dici, il libro è nato da una domanda lanciata ai tuoi fan su Facebook. Il tuo progetto nasce e vive quotidianamente sui social. Perché non hai pensato di produrlo — ma la risposta, probabilmente sta nella tua pigrizia — ricorrendo ad una campagna di crowdfunding?

I social network sono importantissimi. Prima di Facebook, utilizzavo Flickr, che forse era un mezzo anche più adatto e veritiero, in termini di riscontri. Ed è lì che mi sono creato un bel po’ di contatti. Su Facebook, invece c’è di tutto. È come andare in piazza. Sul crowdfunding, credo di avere ragionato da band musicale. E se io fossi una band, mi cercherei un’etichetta discografica. Perché, in questo momento storico, è importante.
Magari ti inventi (guardando il frigorifero che, per inciso, è di un’altra marca. ndr) «Io sono sotto la Whirlpool» — la gente, allora, dice «Ah, cazzo, la Whirlpool» e magari la Whirlpool non esiste — piuttosto che dire «Io sono autoprodotto».
Quindi, avevo bisogno di un editore. Ma non per riempirmi la bocca. Più che altro per lasciare intendere di avere qualcuno alle spalle, che credeva nel mio progetto e che quindi mi stava aiutando. E poi, sempre parlando di crowdfunding, personalmente, non mi piace chiedere dei soldi in anticipo, pur trattandosi in questo caso di una raccolta di cui già si conoscono i contenuti. Forse è anche la paura di perdere, però questa cosa di rompere le palle alla gente ogni giorno per farti dare dei soldi, perché non basta una volta…
Io le cose le voglio dire una volta. Al massimo due. Già ora, mi sta pesando dover dire 40 volte che è uscito il mio libro. Ma lo devo fare, perché una volta non basta. Specialmente sui social, dove dopo un’ora la gente si è già scordata tutto.

Te lo chiedevo, proprio perché, aldilà del settore musicale, dove ormai è all’ordine del giorno, ora anche l’editoria si sta avvicinando al crowdfunding come mezzo per sostenere la pubblicazione. Mi viene in mente Ratigher, che col metodo Prima o Mai — che non prevede un tetto ma solo un limite di tempo — ha prodotto il suo Le ragazzine stanno perdendo il controllo. La società le teme. La fine è azzurra.
Nel suo caso, il valore aggiunto è dato dal fatto che i soldi raccolti servono a stampare l’unica edizione mai possibile per quel libro. Cioè, non esisterà mai una ristampa.

Figo. È un modo. Effettivamente, qui forse sono stato pigro a non cercare e trovare un modo adatto a me.

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Comunque, non intristiamoci. Fatto sta che il libro è qua.

Sì, infatti. Forse c’era anche l’urgenza di farlo uscire, che si scontra un po’ con l’idea di dover aspettare le donazioni. Quindi, mi sono fatto prestare dei soldi. Me li sono fatti riprestare ora. Però volevo farlo subito. E anche con questa idea, è passato comunque un anno, perché io il 19 dicembre 2013 ho avuto l’incontro con Manuele.

C’è voluto un anno, quindi.

Sì, anche perché mi sono reso conto che non potevo mettere tutte immagini già pubblicate. Se stai pagando dei soldi, qualcosa di inedito te lo devo dare. La difficoltà è stata produrre delle immagini nuove, pur continuando a pubblicare delle foto per mantenere la pagina attiva. Se oggi vendo quelle 10 copie in più, credo sia proprio perché sono riuscito a non metterla in stand by.
Non è facile per chi non lo fa come mestiere. Quando scatto, non devo portarmi 10 immagini a casa. Non mi è mai interessato. Magari, di un set ne escono due e poi non scatto per un mese. E quei due scatti li devo pubblicare per forza, altrimenti la mia pagina muore. Purtroppo, con le politiche di Facebook, ora ci sono statistiche per cui, se non pubblichi per un po’ di tempo, poi non ti si fila più nessuno, i tuoi post non appaiono più nella home. Questo l’ho imparato, perché è un aspetto che riguarda il mio lavoro nell’ambito dell’organizzazione di concerti. Ecco perché c’è voluto un anno per tirare fuori 5 inediti.

Oltre agli inediti, come hai scelto le altre fotografie che compongono il libro?

Sono più o meno tutte quelle che ho pubblicato, più 5 che non avevo scelto di alcuni set. Non è che ci sia un vero e proprio filo concettuale. Non ho mai ragionato per serie, se non per il filone delle abat jour, che ho voluto staccare, in quanto parentesi. Gli altri sono due anni di scatti.
Non ho una produzione tale da poter definire dei periodi. E poi, non ho mai ragionato per progetti, come invece fanno molti fotografi. Però, adesso, sento che si è chiuso un ciclo. E sento il desiderio di scattare con i vestiti. Non so se avverrà. Però questo è stato il ciclo degli “svestiti”, come mi ha suggerito una ragazza per distinguere queste immagini da dei veri e propri nudi classici.
In effetti, credo sia vero. Il nudo ha tanti concetti insiti nella parola. Lo svestito è una foto in cui è assente il vestito. È molto più interessante dire che un vestito è assente.

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Tra l’altro, quello che io credo faccia la differenza, nella tua fotografia, è la capacità di raccontare una storia.

Questo è interessante. Perché, quando ho cominciato a fotografare le persone, ho pensato esattamente il contrario. Non volevo più raccontare delle storie. Io vengo dal teatro. Dai 15 ai 20 anni, ho fatto l’attore. All’inizio, per me era importantissimo raccontare delle storie.
Quando ho iniziato a ritrarre la gente, molto inconsciamente, mi sono trovato a voler guardare con più freddezza. Il fatto di non usare vestiti, era proprio il manifesto di questa scelta. Non hai un vestito, non sei una storia. Sei un corpo.
Non è un dogma, naturalmente. C’è una persona. Ma tolta la faccia, tolta la posa naturale, la necessità era proprio quella di non raccontare niente. Però, probabilmente, non ci sono riuscito.

Beh, inevitabilmente, nel momento in cui tu copri una faccia o incastri due persone sotto un materasso, qualcosa lo stai raccontando…

Infatti. È inevitabile raccontare delle storie. Però, mettiamola da questo punto di vista: non mi voglio sforzare, perché le storie esistono già. Se tu arrivi al minimo e non racconti tu niente, è chi vede la foto a raccontare a se stesso la cosa che gli è più vicina.

Però, comunque, non è proprio un minimo.

È tantissimo.

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Tu non svesti una persona e basta. La scelta di mantenere i collant…

Quella ce l’ho sempre avuta in mente. Ma io non riesco a dare una connotazione ai collant. È solo una questione visiva.

Ma per me che la guardo, l’idea — così come per gli elementi grafici che saltuariamente inserisci — è che, rispetto a quella che può essere la fotografia erotica con ampia connotazione morbosa che il nudo per il 90% delle persone inevitabilmente ha — perché, specie su internet, figurati, sai quanta gente vede una fotografia non nata per uno scopo pornografico e ci si masturba sopra — l’idea è che tu, mettendoci dei collant, stia dichiarando di voler sdrammatizzare.

Probabilmente sì. La volontà, inconscia, di non volerci mettere l’erotismo c’è sempre stata. Onestamente, è solo un caso, ad esempio, che io non abbia mai ritratto degli uomini. Ho sempre rimandato. I collant, tra l’altro, li ho recuperati da uno di quelli che considero tra i miei pochissimi — ma per un fatto di ignoranza — ispiratori: Guy Bourdin, che li ha usati molto.

Prima hai detto di considerarti più un attore che un fotografo. Quanto devi al teatro e quanto teatro c’è nella composizione delle tue scene?

Io al teatro devo tutto. E la mia vita è un enorme grazie al teatro. Faccio questo, perché ho fatto teatro. Così come qualsiasi cosa io abbia fatto è venuta grazie alla mia scoperta del teatro, che a 15 anni mi ha fatto sentire adulto.
Chiaramente, la fotografia è la forma d’arte più facile da incontrare nella vita. Nella fotografia ti imbatti. Il teatro devi andarlo a cercare. Io dicevo a mia madre che andavo a studiare da Daniele e invece andavo a fare le prove. È grazie al teatro se non sono stato bocciato a scuola, perché i professori, sapendo che facevo teatro, capivano che non ero un coglione.
Poi, una parte del teatro è la scenografia, che è stata fondamentale nella costruzione delle foto, che avviene sempre al momento. E anche questo aspetto lo devo all’improvvisazione teatrale. Ancora, la mia prima ricerca teatrale ha coinvolto la clownerie, il prendersi in giro, il giocare. E quindi, anche nel set, dico «vai lì e mettiti sul tavolo, vediamo cosa succede». Dalla clownerie, si arriva all’arte del non fare in teatro. Una persona in scena che non fa niente è molto più forte di una persona che entra in scena e urla come una matta.
C’è tanto non fare. C’è un corpo e una scena. E poi, ancora, io sono il regista e la modella è l’attrice. Per me tutta la fotografia, e soprattutto l’atto fotografico — che è quello che mi interessa — è teatro. In questa fase, è stato perfetto. L’atto fotografico che si riallaccia all’atto poetico di Jodorowsky, un altro dei miei pochissimi ispiratori consapevoli.

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È quasi come se la macchina fotografica fosse non necessaria, in un certo senso. Paradossalmente, questo libro esiste anche senza, se conta l’atto fotografico.

Sì, è solo un mezzo. Avessi avuto un altro mezzo, magari avrei dipinto. Perché no.

Qualsiasi cosa sarebbe stata comunque teatro.

Non posso prescindere. Ne sono molto contento, perché non sono nato fotografo. Ed è stata la mia arma vincente. Perché chi viene dalla fotografia, inizia a copiare gli altri. Io no. Sono stato agevolato dal fatto di sapere già cosa volevo fare.
Quando avevo 13 anni ascoltavo hip hop e mi piacevano i writer. Lì, era una necessità. Volevo fare il writer e copiavo gli altri. Qui no. Non volevo fare il fotografo. Mi sono comprato una macchina fotografica ma il passaggio tra fotografia e teatro non l’ho nemmeno capito. È stato vorticoso. E tutto quello che avevo visto in teatro l’ho riversato nella fotografia. Ed è quello.

Poi ci sono le frasi, che — nella folle libertà di questa discussione — ci siamo un po’ dimenticati…

Sì, però è giusto così. Perché dipende molto da chi vede e da chi legge. Tu sei più attento all’aspetto fotografico. Tanta gente mi dice «che bello quello che scrivi». E io rispondo «Sì, ma le foto non le hai viste?».

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Ecco. Le frasi non si riferiscono immediatamente alle foto ma contribuiscono a creare in chi guarda un immaginario e a dare un’idea di quello forse che tu avevi in mente. In questo senso, nel complesso, Iosonopipo è molto più vicino ad alcuni progetti artistici che utilizzano la fotografia come uno degli elementi di un linguaggio più che come un linguaggio stesso e autosufficiente.

Ho capito cosa intendi. Ed è verissimo. La scrittura è nata dal fatto di voler dire qualcosa e di voler ancora una volta alleggerire le foto. Quindi, comunque, nasce dopo. Poi, ho trovato un mio modo di scrivere. E, così come è accaduto per la fotografia, ho capito subito come volevo scrivere.
Una foto da sola, per me, è pretenziosa. Con la frase, la alleggerisci. Alcune volte, parte da un dettaglio della foto. Però, non deve finire lì. Nel libro, ad esempio, ho voluto fare un esperimento. Le frasi le ho mandate a caso. Per pigrizia, per disordine, per disorganizzazione, non avevo salvato le frasi insieme alle foto. Non essendo nate come didascalie fedeli, secondo me, si prestavano bene ad un gioco alla Joyce. Prendi le frasi e mettile dove vuoi. Ed è stato davvero curioso. Perché alla fine è il grafico che le ha volute associare. Ed è stato bello trovarne alcune di fianco a delle foto per cui non erano state pensate ed accorgersi che ci stavano comunque bene.

Praticamente, anche se sono già state viste, quindi, le foto diventano nuove. E il libro non è solo tuo. Ma anche del grafico.

Esatto. Che tra l’altro è Simone Bertuccini degli Ex-Otago.

Perché hai scelto di pubblicare, utilizzando non solo il tuo nome ma il tuo nome associato al nome d’arte Iosonopipo?

Perché comunque mi conoscono così. Quei quattro stronzi che sanno che Io sono Pipo, lo beccano in libreria e dicono «E chi cazzo è questo Giuseppe Palmisano che si è fottuto le foto di Iosonopipo?».
La componente social è fondamentale per questo progetto, perché tutto nasce da questa pagina, che io ho creato nel 2009, perché facevo le foto agli alberelli e agli uccellini, e l’ho chiamata Iosonopipo.
Il mio nome di battesimo è Giuseppe. Mia sorella, un giorno, all’asilo, mi ha chiamato Pippo. Dal giorno dopo, sono stato Pippo per tutti. Nel tempo, Pippo è diventato Pipo, per vari motivi. Il primo è che, durante un viaggio nei Balcani, non avendo loro l’allungamento fonetico, e quindi la doppia, scrivevano Pipo. E poi, mi piaceva il fatto che, crescendo, le cose si scremano. Era come affermare di poter togliere l’eccesso. Così come le mie foto che, inizialmente, erano supersaturate e poi hanno perso sempre più il colore. Ne sono rimasti pochi.
Iosonopipo, aldilà del gioco, è venuto a Roma, quando facevo teatro, a 18 anni ed ero sempre di corsa per i provini. Mi è capitato di andare a delle cene, conoscere degli artisti e, per puro caso, stare tra attori che contavano e di sentirmi come se tutti si stessero chiedendo «e questo chi cazzo è?». Questo Iosonopipo è nato così, per gioco, come uno che alza il dito ad una festa e dice «mah, io sarei Pipo». Poi è rimasto per sdrammatizzare l’accostamento alla descrizione “photographer”, imposta da Facebook. Ormai non posso farne a meno.

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Devi molto ai social network. Che però sono anche i principali responsabili di una banalizzazione della fotografia. Quanto è difficile, a questo punto, essere un fotografo — o non esserlo, come te — vivendo e promuovendosi in rete?

Verissimo. Se hai 500 euro, ti compri una Nikon D40 o D60, Instagram è gratis. Il discorso è che credo ancora un po’ nell’umanità e nel suo aspetto critico.
La fotografia, come dicevo, è la prima arte alla quale ci si può accostare. E avrai sempre quei due che — qualsiasi cosa tu stia fotografando — ti dicono che sei bravo. E questa cosa è il male.
La differenza allora la fa la continuità. Quanto puoi andare avanti, fotografandoti i piedi? Sono dei fenomeni. E come tutti i fenomeni, possono garantirti un attimo di celebrità.
Ci sono artisti bravissimi che su Instagram hanno molti meno follower di qualcuno che magari, con molto meno talento, ha una cerchia molto più ampia, per svariati motivi. Diventare famosi in un mondo di povertà artistica è possibile. All’inizio, qualche volta ho scritto «Che palle, queste ragazzine con la reflex». Poi ho lasciato perdere, perché in fin dei conti le cose davvero belle continuano. Le altre si fermano. Certo, la costanza premia. Se fai una cosa, ogni giorno, qualcosa ottieni. Fosse anche entrare nel Guinness dei Primati.

Forse il problema, in questo caso, è capire se esiste o meno un progetto e quanto conta.

Il lato artistico sta anche nell’individuare, anche dopo tempo, un progetto. Una delle poche qualità che sento di potermi riconoscere, è proprio quella di saper individuare il taglio artistico. La coscienza o l’autocoscienza artistica è alla base. Un cuscino sotto la testa può essere un caso. Ma se c’è sempre può diventare il fulcro di un lavoro. E la costanza, a quel punto, ti premia. Il resto sono api impazzite che fanno foto.

Cambiando argomento, tu hai abitato in molte città. Che rapporto ha quella in cui vivi col tuo lavoro di fotografo?

Il posto in cui abito non è generalmente quello in cui faccio le foto. La città è la casa in cui mi vado a riposare. Proprio per necessità, è diventato così. Come la porta della mia stanza mi divide dal mondo. Un mondo che, principalmente per lavoro, è abbastanza incasinato.
Ad esempio, quando non ero a Milano, Milano per me era una fucina di esperimenti fotografici. Ho vissuto 4 mesi a Milano e ho scattato una sola fotografia. E solo perché sarebbe stato un delitto non farlo, nella casa che avevo trovato. Però, tutte le città in cui sono stato sono diventate per me il piattume artistico. Ma non so se sarà lo stesso con Bologna.

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Come entri in contatto con le tue “modelle”?

Adesso inizia a proporsi qualcuno. Per tanto tempo, per vari motivi, non ho mai ricevuto proposte. Magari perché i miei sono ritratti “svestiti”. Magari perché non si sentono loro all’altezza. Quindi, chiedo sempre pubblicamente a chi mi interessa. E non deve trattarsi per forza di una ragazza bella. Sono molto in difficoltà, con le ragazze belle. Perché non sto sfruttando la loro bellezza, almeno per quanto riguarda il viso.

È strano. Perché questo discorso presuppone che tu non conosca molto bene le persone che fotografi, mentre nei tuoi scatti si avverte una grande intimità coi soggetti. Intimità che, allo stesso tempo, si perde, nel momento in cui metti loro un cuscino sulla faccia…

Nell’80% dei casi è la prima volta che ci vediamo. Eppure tutte si trovano molto a proprio agio. L’intimità è dettata da tanti fattori. Il primo è forse che queste ragazze non sono modelle. Con una che posa ogni giorno, l’intimità non esce. Poi ci sono i contesti domestici. Il teatro, l’aspetto registico, il fatto stesso che anche io mi svesto di qualsiasi sfumatura erotica: tutto questo contribuisce alla creazione dell’intimità tra due persone che non si conoscono affatto.

È molto sottile il senso della descrizione che tu dai di te sul tuo sito, che richiede di chiamare in causa quasi una logica fisica da Interstellar. Dichiari di vedere allo specchio non la tua figura ma una foto ingiallita, come se tu avessi già vissuto e fossi tornato per dire che in realtà non cambia niente. Non è però un ritorno dal futuro. Accade tutto nel presente.

Ti svelo una cosa. Non l’ho scritta io. Pensavo di non sapermi descrivere. Ora sto scoprendo l’arte di farlo. Ma secondo me, Iosonopipo basta.
L’ha scritta la ragazza che ha organizzato la mia prima mostra. Me l’ha fatta leggere e per quel momento, in cui raccontavo storie, calzava a pennello. Mi ci sono ritrovato. È bello poter dire che cambia tutto ma le relazioni, le sensazioni, se scremiamo tutto quello che viviamo – anche nudi – siano sempre quelle e che noi siamo come potevamo essere qualche anno fa. Sarà sempre valido. Non riuscirei a posarlo su una biografia relativa a quello che sto facendo adesso, perché non sto raccontando storie. Ma su di me, sì.

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