Made in Rana Plaza

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Rana Plaza. Chissà quanti si ricordano questo nome?
Per ricordarlo, questo nome, bisogna avere una buona memoria, perché ne hanno parlato poco, meno di un millesimo della principessa che si sgravava. Era il nome di un centro commerciale di 7 piani costruito su un terreno paludoso alla periferia di Dacca, in Bangladesh, riadattato a fabbrica di confezioni. Nel crollo sono morte in millecentosessanta (1.160 lo scrivo in cifre e in lettere come negli assegni!).
Le altre tremila operaie sopravvissute o sono ferite, o mutilate, o traumatizzate oppure hanno lasciato una persona cara sotto le macerie.

Nessuno si forniva di camicie in quella fabbrica (capacità produttiva 4 milioni di camicie l’anno): più difficile che trovare chi scoreggia in ascensore, tutti guardano il soffitto.
Tuttalpiù erano rapporti occasionali o erano fornitori marginali, praticamente una piccola scoreggia. Poi si sa come va il mondo, con due lire ti compri il timbro dell’Unicef sulla tua bella campagna pubblicitaria e ripulisci l’immagine di un sistema produttivo basato solo sulla competizione al ribasso.

Elio, un mio amico, faceva le camicie per uno della banda che si riforniva lì: sono pigro, se mi leggete avete il computer davanti, quindi via con copia e incolla “Rana Plaza” e trovate i nomi dei clienti.
Elio si è diplomato perito della confezione, in una gloriosa scuola di Padova da dove è uscita la maggior parte dei tecnici più preparati che giravano nelle industrie Venete della confezione. Infatti, dato che viviamo un paese dove le cose vanno alla rovescia, quella scuola ha chiuso (per mancanza di iscritti). In compenso a Padova è nata poi l’università della moda con i corsi tenuti da professori di storia e di filosofia che come si sa hanno delle grandissime competenze nei meccanismi del mercato e nelle tecnologie che muovono il mondo della moda.
La prima scuola era una scuola voluta e sostenuta dall’industria fiorente di quegli anni, la seconda un capriccio di qualche rettore (o della moglie). Sta comunque chiudendo anche quella.

Il ruolo di Elio nella camiceria era di modellista-direttore-responsabile produzione-meccanico-impiegato e socio. L’azienda sorgeva in una strada ai piedi della collina ed era ospitata nei locali di un ex convitto per ragazze madri. I visi di una parte delle dipendenti di questa strana ditta erano segnati o da vocazioni sfumate o da gravidanze inattese.

Il lavoro non mancava e le cose andavano bene. Alle dieci della mattina passava una specie di madre superiora mancata, che portava a tutti una fetta di pane e marmellata, con una scodella di tè o di caffellatte. Solo ad Elio, perennemente spettinato e “descamisado”, veniva portato un panino con salame. Però non di venerdì, ed erano cazzi per la badessa: «non voio la marmellata orco…».
Il Veneto ricco di santi, missionari e ordini religiosi, è una sorta di porto franco per chi bestemmia. La badessa non si scomponeva per niente, scuoteva il capo e tornava con il panino richiesto.

Non so a chi possano interessare storie del genere. A me che le ho vissute sono tornate in mente leggendo delle ragazze sepolte vive. Ci sono tanti modi di fare le camicie, a me piacevano quelle di Elio, fornite di polsi e colletto di ricambio. La ditta di Elio non aveva il sito internet, quindi non poteva esserci scritta la “mission” e non c’era la linguetta con scritto “noi e il sociale”. A quel tempo una camicia ti accompagnava per anni: aprivi l’armadio e il guardaroba era un po’ il riassunto delle ultime puntate della tua vita.

Di fronte a questa tragedia mi è tornata in mente un’altra immagine che ho fissato nella mia mente in questi anni: il giuramento dei ministri del governo Zapatero. Le ministre in posa, o forse è più corretto dire i ministri di sesso femminile, con sotto la didascalia “Le ministre e la moda democratica”. Se le hanno pagate fanno schifo, se non le hanno pagate erano un tantino ignoranti sui retroscena della “moda fast-food”.

Cos’hanno fatto alle nostre coscienze, sì anche a quelle progressiste, per non farci capire che quando compriamo una camicia da dodicieruoenovantanove parte del colorante ce lo troveremo sul pesce pangasio che mangiano i nostri figli o nipoti all’asilo, e chi le ha confezionate o non arriva o non vede la pensione.
Sì, le vedo all’assemblea dell’asilo le mamme assatanate vestite con la “moda democratica” (tassativo parcheggiare il Suv in seconda fila e cambiare look ogni giorno)! Mi raccomando assessore: frutta biologica per i bimbi.
Sì, e il pesce doc del delta del fiume Mekong.

C’è un libro che non è stato tradotto in Italiano che racconta la “scia” di disastri che si lascia dietro questo modo di produrre. To die For: is Fashion Wearing Out the World?. L’autrice si chiama Lucy Siegle. Nella patria del made in Italy non c’è un cazzo di editore a cui interessi. In compenso si fanno libri, film e interviste su stilisti devastati dal botulino e riaggiustati con photoshop.
Attenzione, parlo contro il mio interesse, il tessile inquina molto, i vestiti sceglieteli e conservateli con cura.

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