Mi prendo e mi porto… a Bali

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Sarà successo a tutti, o quasi, di ritrovarsi in alcuni momenti a pensare: «vorrei mollare tutto, andare via, partire per un po’…», di essere assaliti da quella specie di “saudade”, quel bisogno di cercare qualcosa che non sappiamo neppure noi cosa sia esattamente, ma poi, per un motivo o per l’altro, il più delle volte questi pensieri passano e restiamo intrappolati e al tempo stesso affezionati al nostro tran tran quotidiano fatto di doveri, responsabilità, e di quelle rassicuranti abitudini che a volte detestiamo ma più spesso amiamo.

Il pensiero di partire ce l’avevo in testa da tanto tempo, e ad un certo punto mi sono detta: ma perchè non lo tiriamo fuori dal cassetto questo sogno, anziché lasciarlo lì nella naftalina?

E così ho fatto, ho deciso che volevo proprio partire e che volevo farlo sul serio, e subito.
Mi sono svegliata una mattina, una come le tante, sono andata in ufficio e ho chiesto un’aspettativa dal lavoro. E in quel momento mi sono ritrovata a pensare: ma l’ho fatto davvero? Ebbene sì, lo avevo fatto davvero.
Ora, la prima cosa da fare era decidere una meta. E la scelta è stata quasi naturale per me, il mio cuore e la mia pancia volevano assolutamente portarmi in Asia.

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Amo questo continente, amo la sua storia millenaria, le sue religioni dai riti incredibili, la gente che incontri per la strada che non ti nega mai un saluto. Amo la puzza che si respira nei mercati polverosi, brulicanti di generi umani e animali, una puzza che a volte ti si infila nel cervello e non riesci più a mandarla via. Amo gli squisiti cibi piccanti e speziati che ti tolgono il fiato, amo gli scrosci d’acqua improvvisi che allagano marciapiedi e strade, e che dopo cinque minuti sembra non ci siano mai stati.

Amo le strade intasate di biciclette e di motorini, che rendono l’aria irrespirabile nelle ore di punta e che caricano quattro, cinque e perfino sei persone tra uomini, donne e bambini, cani, polli e maiali, tutti in bilico come in una magica danza acrobatica degna del Cirque du Soleil.
Amo i templi che si nascondono dietro angoli inaspettati, di una bellezza antica che ti porta indietro nel tempo e ti fa viaggiare con la fantasia.

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E alla fine ho pensato, se amo così tanto questo paese è giusto ricambiare, e mi sono messa alla ricerca di qualcosa da fare per portare un contributo, anche se piccolo, per dare una mano e rendermi utile in qualche modo.

Sono molte, moltissime le associazioni e le Onlus che operano qui e che si possono facilmente contattare dall’Italia, e dopo una concitata ricerca su internet (aiutata dall’utilissimo servizio offerto dallo sportello gratuito Mobilitas di Bologna) ho trovato ciò che faceva al mio caso: insegnare inglese ai bambini balinesi nel villaggio di Ubud.

Ora… so che nomi come Ubud e Bali richiamano subito alla mente il film nonché il Best Seller Mangia, Prega, Ama (che tra l’altro ho letto durante il lunghissimo viaggio aereo), ma la mia intenzione non era di venire qui per trovare un affascinante Javier Bardem mentre mi aggiravo tra le risaie… diciamo che se dovessi incontrarlo non resterei certo indifferente, ma purtroppo non nutro questa speranza.

Ho scelto di venire qui perché questo è un luogo di pace, popolato da persone sorridenti e rispettose, che vivono le loro giornate scandendole tra riti e preghiere, che cercano di aiutarti in qualsiasi modo anche quando chiedi loro qualcosa di cui non hanno la minima idea. In tal caso mobiliteranno vicini e parenti pur di darti una risposta.

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Qui ci sono veramente tanti bambini, sbucano ad ogni angolo di strada, e quando passo loro accanto mi guardano come se avessero visto un’aliena. Forse non sono abituati ad incontrare una ragazza bionda, penseranno che sono una specie di Barbie formato famiglia… mi osservano divertiti, salutano sbracciandosi e sorridendo con sorrisi sdentati e occhi luminosi.

Decine di bambini e bambine, avvolti nei loro eleganti sarong, seguono insieme a tutta la famiglia le processioni religiose che si tengono periodicamente lungo le strette vie dei villaggi circostanti, a ridosso della verdissima foresta tropicale, straripante di fiori colorati e popolata da una miriade di meravigliose farfalle.

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Le cerimonie costituiscono un elemento fondamentale nella vita di ogni balinese, nonché un’opportunità di fare festa, in quanto prevedono danze a suon di tamburi, banchetti, spettacoli teatrali ed esibizioni musicali.

Qui la famiglia è molto importante, anzi direi che è una vera e propria autorità.
Tutte le generazioni vivono riunite in agglomerati di case, e all’interno di questi agglomerati c’è anche il tempio di famiglia in cui si svolgono tutte le funzioni principali, compresi matrimoni e funerali.

Al momento io vivo presso una di queste famiglie. La moglie si chiama Made, suo marito si chiama Made e il figlioletto si chiama… provate a indovinare? Esatto, si chiama Made pure lui.
Il motivo è semplice, qui a Bali ci sono solo quattro nomi: Wayan, Made, Nyoman e Ketut, e stanno ad indicare l’ordine di nascita: primogenito, secondogenito, terzogenito e quartogenito.

Insomma, per me che non ricordo mai un nome questo dovrebbe essere di aiuto: ho una possibilità su quattro di azzeccarci. Se non fosse che tutti usano soprannomi incomprensibili alle mie orecchie per distinguersi tra loro, e quindi mi ritrovo sempre al punto di partenza.

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I bambini della classe in cui insegno parlano poche parole di inglese, ma sono davvero fieri delle frasi che riescono a dire e ci tengono molto a chiedermi come mi chiamo e da dove vengo, per poi esclamare entusiasti: «ITALIIIII», «Milan, Inter… Santiago Bernabeu!» (che nel loro immaginario deve essere dalle nostre parti, quindi associabile all’Italia).

Le femmine sono educatissime, come non se ne vedono spesso a quella età, sembrano delle donnine in miniatura già pronte ad affrontare i doveri che la vita riserverà loro, mentre i maschi sono scatenati e chiedono continuamente quanto manca alla pausa, per potersene scappare scalzi a giocare a pallone.

Da quando sono arrivata qui ho abbandonato le mie comodità. Ho sostituito il mio confortevole letto matrimoniale con uno a castello, da cui rischio di cadere come una foca ogni volta che cerco di salire la stretta scaletta di bamboo. Non ho la televisione, la mia sveglia mattutina è costituita da un impavido gallo, condivido un minuscolo bagno con altri volontari e con simpatici scarafaggi dalle dimensioni di una patata.

Mangiamo seduti per terra, camminiamo scalzi dalla mattina alla sera e le piante dei miei piedi ormai sono palmate, per non parlare del riso che mi esce anche dalle orecchie perchè come potrete immaginare è il piatto forte della casa… e per una bolognese come me la mancanza di ragù e tortellini, credetemi, si fa sentire!

Ho lasciato in Italia i miei tacchi, i miei trucchi, i miei vestiti migliori e mi sveglio ogni mattina pensando: «è proprio qui che vorrei essere, in nessun altro posto se non qui e adesso» e mi chiedo quante volte, nella mia vita di tutti i giorni, mi soffermavo a fare questo pensiero.
Questo mi ha portata a fare un’altra riflessione: forse quando (per un motivo o per l’altro) sentiamo il desiderio di fermarci, di prendere fiato e di staccare la spina…beh, in qualche modo dobbiamo cercare di farlo, è un dovere verso noi stessi. Non importa andare dall’altra parte del globo come ho fatto io, ognuno può trovare il “suo” posto da qualche parte nel mondo oppure dentro di sé.

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Credo che come me, chi decide di intraprendere questo tipo di esperienza voglia non solo aiutare gli altri, ma anche se stesso.
E stando qui mi rendo conto ogni giorno di quanto poco basti, e di quanto “troppo” siamo circondati nelle nostre vite, tanto da non renderci nemmeno più conto che tutto ciò che accumuliamo, in realtà, anziché farci sentire pieni spesso ci fa sentire ancora più vuoti.

Essere qui, aiutare dei buffi bambini a parlare una lingua che un giorno potrà dar loro la possibilità di un futuro migliore, non solo arricchisce le loro vite, ma arricchisce la mia ogni giorno di più, e sono certa che una volta ritornata a casa sarò ancora più grata di ciò che possiedo, e non sto parlando in termini di oggetti ma in termine di valore umano.

Cambiare prospettiva è un esercizio che richiede coraggio e pazienza, che destabilizza le nostre certezze, ma una volta fatto il primo passo ci chiederemo cosa aspettavamo a farlo prima.
Ora qui il sole sta calando, in Italia è ora di pranzo e il mio riso sta bollendo in pentola… quindi, come dicono da queste parti, Selamat Tinggal.
A presto!

photo ©Michela Balboni

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Mostra Commenti (2)
  1. nemmeno ti conosco … ma è bello sapere che in qualche momento della vita proviamo qualcosa che ci accomuna.."non si sa esattamente che cosa sia… ma ci spinge e ci mette alla ricerca di qualcosa ..". Proprio oggi volevo fare un salto a Mobilitas, vediamo un pò! :)

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