La stireria de Lino Bestema

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Il successo del Made in Italy (quello vero, fatto in Italia) ha avuto il suo massimo sviluppo a cavallo degli anni Ottanta e Novanta. La sua crescita è riconducibile oltre che alla bravura degli stilisti ad una rete incredibile di piccole e grandi attività che mettevano insieme una rete di imprese e di competenze uniche al mondo, in grado di realizzare in maniera impeccabile abiti e calzature esportati e (ahimé!) copiati, in tutto il mondo. Questo insieme me lo immagino come un grande mosaico composto da piccole tessere: filature, tessiture, finissaggi, produttori di accessori, confezionisti, maglifici e infine stirerie.

Al prestigio del Made in Italy anche la stireria di Lino Bestema aveva dato il suo contributo.
Lino, oltre che un ottimo stiratore, era anche un valente ballerino, ogni sabato sera con o senza febbre si recava nella grandi cattedrali della disco music, orrendi capannoni nelle zone industriali dove si stivavano i sogni e le illusioni: il Boom, il Verona 2000, il Principe, il Play Time. Per le sue serate magiche l’unica cosa che non sopportava era che i suoi amici lo chiamassero Bestema davanti alle ragazze, perché allora bestemmiava sul serio, roba pesante, quindi avevano concordato di chiamarlo “Best”, che nel suo piccolo faceva molto figo. Poi ad un suo cenno l’orchestra di “Cherubino e i Cherubini” attaccava con Aquarius e la serata cominciava sul serio.

Torniamo a Lino e suo fratello Pietro, lavoravano in una grossa e prestigiosa azienda di confezioni, loro erano allo stiro ed erano molto bravi, poi verso l’inizio degli anni Ottanta si sono licenziati e con la liquidazione e un piccolo aiuto dei genitori hanno aperto una stireria. Erano arrivati ad una trentina di dipendenti, dalla loro stireria sono usciti molti abiti dei marchi più prestigiosi che in quegli anni si producevano in Veneto. Nel frattempo nascevano numerosi laboratori di confezione, le operaie più brave si licenziavano dalle grandi aziende: con poche risorse e molta buona volontà incominciavano la loro avventura imprenditoriale. Nei paesi della zona in quel periodo i piazzali davanti alle chiese durante la messa della domenica sembravano delle concessionarie Mercedes. Qualcuno forse esagerava un pochino con gli acquisti in leasing.

La stireria di Lino Bestema andava a gonfie vele, lui alle presse da stiro e suo fratello Piero a consegnare con il furgone. Poi dopo qualche anno dalle linee di stiro hanno cominciato a sparire i jeans, qualcuno incominciava a produrli in Marocco o in Tunisia e di conseguenza i laboratori di jeans hanno cominciato a chiudere, si vedevano meno Mercedes, qualcuno diceva che aveva l’auto in officina, il barista maligno sussurrava che era passato il carro attrezzi mandato dalla società di leasing.

Vicino a casa mia c’era la sede del sindacato, vedevo quasi settimanalmente gruppetti di operaie con il sindacalista che spiegava che il tessile è un settore maturo e che era impossibile arrestare la chiusura di questi laboratori. Lino aveva perso per strada qualche dipendente, e non gli dispiaceva, mi diceva comunque sempre per farmi/farsi coraggio: «noi stiamo tranquilli la produzione di qualità resterà in Italia». Invece man mano che passava il tempo Lino imprecava e bestemmiava sempre di più: i tessuti erano sempre più scadenti ed i prezzi sempre più tirati. Ai tempi della Milano da Bere con i soldi che costava la Naomi per una sfilata ci pagavi un laboratorio di confezioni per tre anni di fila.
E Lino era sempre più incazzoso.

Ora a distanza di anni la stireria gira al minimo, stira solo i campionari delle firme, poi la produzione va quasi tutta all’estero. Piero (suo fratello) ha capito che per il tessile in Italia non c’è più niente da fare. È andato per la sua strada ed ha aperto una nuova attività con il figlio: due pulmini da otto posti, ed organizza pellegrinaggi low-cost per Medjugorje, «mi son la Ryanair dei miracoli» mi dice ridendo quando lo trovo al bar, «el primo miracolo de la madona l’é che mantegno la fameia».

Medjugorje

Lino invece, con la moglie, le figlie e l’ultima dipendente, Fatma, con il bel viso incorniciato dal velo, va avanti a stirare. Posiziona le giacche sotto la vecchia pressa Hoffman per l’ultimo colpo sulle spalle e mentre la pressa sbuffa il vapore si mescola al fumo delle sue rosse: ha lo sguardo perso nel vuoto, però quando sistema il collo di una giacca e sente tra le dita un buon tessuto dice: «con sta roba chi te ghe soddisfazion no con che la merda là», indicando con un cenno del capo un carrello di giacche improbabili portate li da Giuseppe-Zu, cinese di Veronella che ha il brutto vizio di cucire le pattine delle tasche una più alta dell’altra.

Per il caffè della mattina qualche volta al bar trovo Abele il sindacalista che mi dice sempre “brao te si a tegner duro”, lui non segue più i tessili (specie in via di estinzione). È passato a seguire il patronato: sussidi di disoccupazione, cassa integrazione e altre faccende tristi. Io comunque non sono mai riuscito a farmi spiegare cosa intendeva il sindacato e qualche economista di area per “settore maturo”.
Poi di solito chi esprimeva questi concetti parlava sempre in maniera vaga di formazione, tecnologie nuove, e di finanziamenti (quelli sempre) a favore di una non precisata ricerca.
Vogliamo parlare delle pseudo Silicon Valley italiane dove con i soldi della ricerca, si costruivano le attrezzature per piratare i decoder delle tv satellitari?

Penso che sia innato negli Italiani una sorta di complesso di inferiorità: se in un determinato distretto industriale si sa far bene una cosa ci dovrebbe essere un sistema paese che aiuta, valorizza e favorisce il mantenimento e lo sviluppo di quel settore: una scuola adeguata per migliorare e per creare gli operai i tecnici e gli imprenditori del futuro collegata ad una rete di servizi che semplifichi la vita delle aziende: in poche parole il contrario di quello che avviene adesso.

Poi, tanto per mettersi d’accordo, cosa vuol dire “industria avanzata”? È lecito chiedersi se sia più frustrante saper tagliare, cucire e stirare una bella giacca o lavorare ad una manovia alla Foxconn in Cina, dove in condizioni di violazione continua e sistematica dei diritti del lavoro vengono assemblati i nostri giocattolini tecnologici?
Sulla scuola che è mancata in questi anni per rafforzare la filiera del tessile c’è un’altra storia, che ha dell’incredibile, e che ha a che fare con capitan Schettino…

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