Certe posizioni ideologiche sono difendibili non solo con quello che si dice ma anche col come lo si dice, spesso in maniere molto sottili.
Se ti piacciono i gatti, di solito non ti piacciono i cani, e viceversa. Ognuno prende un po’ la posizione che vuole, anche perché centinaia di film e serie televisive americane ci hanno insegnato che la politica del muro contro muro tra una “dog person” e una “cat person” non porta a niente di buono.
Bulgakov, a questo proposito, si schiera in modo del tutto letterario. Il personaggio principale del suo grande capolavoro è, almeno nell’iconografia delle copertine, un gatto. Invece in Cuore di cane (Einaudi 2001, pp. 276, 13 euro) il protagonista è un cane.
Bulgakov ci dice chi preferisce usando non le parole ma lo stile di scrittura. Non il cosa ma il come.
L’enunciazione ne Il Maestro e Margherita (Einaudi 2005, pp. 386, 8 euro e 50) è semplice, ordinata e non ambigua (sempre in terza persona, con dialoghi ben delimitati). L’enunciazione in Cuore di cane è ambigua, disordinata: il cane parla in prima persona, poi, senza nessun segno di interpunzione o qualche altro dispositivo testuale, prende la parola un narratore esterno. Poi dialoghi. Poi un diario. Poi la prima persona dell’assistente del dottore. E così via.
Queste differenze stilistiche sembrano istituire un’assiologia nel pensiero di Bulgakov riguardo i gattini e i cagnolini.
Spesso il mondo si divide in gatti: eleganti, ordinati, coerenti, furbi, ambiziosi, indipendenti e in cani: spensierati, confusionari, incostanti e totalmente non autosufficienti. Ed è il livello dell’enunciazione, non tanto il contenuto, a riprendere efficacemente questa mai impolverata dicotomia.
Michail Bulgakov è una “cat person”. Come Wiston Churchill, Montaigne, T.S. Eliot.
E Rachel di Friends.
P.S.
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