Una sera di ottobre dello scorso anno, su una terrazza di un appartamento nel quartiere Turro di Milano, una quindicina di persone si sono ritrovate per dialogare assieme di connessioni e affinità elettive attorno cui far ruotare contenuti che non siano solo lo specchio del proprio essere. Tra loro c’erano le ospiti principali, ovvero Livia Satriano e Giulia Capodieci, di cui probabilmente avete sentito parlare in passato da queste parti, e Rocco Rossitto, che quella serata l’ha ideata.
Non si è trattato solo di un incontro ristretto e interessante in cui, a differenza dei grandi talk, tutti sono riusciti ad avere la parola e conoscere gli altri partecipanti, ma anche il primo appuntamento di un festival aperiodico, multidisciplinare, diffuso e soprattutto piccolissimo, chiamato micros.
A distanza di 6 mesi, Rocco Rossitto è pronto per il secondo appuntamento, che non sarà un altro incontro in presenza, ma una mostra, dal titolo 1:100 Una mostra personale.
Composta da una sola fotografia, scattata da Martino Pietropoli e di cui nemmeno noi conosciamo ancora il contenuto, si terrà in qualsiasi luogo e a qualsiasi ora decidiate di aprire la busta con cui vi verrà inviata. Ce ne sono solo 100, tutte numerate a mano e con un testo sul retro, e nel momento in cui state leggendo queste parole sono ufficialmente aperte le richieste per partecipare (cliccando su questo link). Per la cronaca, non è richiesto alcun contributo economico.
Ovviamente è stato impossibile non fare a Rocco qualche domanda per scoprirne di più di questo festival decisamente atipico.
Direi di cominciare dalle basi. Cos’è micros e come nasce?
micros nasce nella mia testa l’estate scorsa, ad agosto. È un mese in cui, complice il caldo sempre più infernale, rallento molto la mia attività lavorativa, così ho più tempo libero ed era da un po’ che avevo in mente di fare qualcosa di diverso rispetto a quello che vedevo in giro. Qualche mese prima ero stato al Primavera Sound, edizione di Porto, che è stato una bomba e in quei giorni c’era sull’Etna un Festival che si chiama Opera: ho partecipato ad un concerto acustico (chitarra e voce) sotto una pianta secolare e ad un after party fino all’alba. Sicuramente questi due eventi hanno influito, ma così come tante altre cose di cui magari non mi sono reso conto subito. Da lì ho pensato, per contrasto, a qualcosa che possa lavorare sul togliere, invece che sull’aggiungere, sul concentrarsi su un aspetto e approfondirlo, per vedere la reazione che fa.
In quei giorni è arrivato anche il nome, micros gioca sui contrasti e sui paradossi. Può qualcosa di microscopico essere attivatore di interazioni? L’idea iniziale era micros – un non festival, proprio perché in me era chiara la natura non organizzata del progetto. Qualcosa che fosse senza una scadenza, senza un area di riferimento, senza un luogo. Poi, avendo chiara la natura contraddittoria del progetto, ho pensato che invece dovesse essere proprio un festival senza punti di riferimento, un festival piccolissimo. Quindi: aperiodico perché succede ogni qualvolta c’è qualcosa da far succedere. Multidisciplinare perché non voglio che abbia un genere, non deve essere per forza arte, musica o altro. Diffuso perché non ha una posizione geografica, è itinerante, ma anche in itinere, è fisico, ma non è detto che non sia digitale.
Ho costruito un contenitore che saziasse la mia voglia di mettere in piedi piccole attività, concentrandomi sulla funzione abilitatrice che la dimensione ridotta ha: negli “spazi” piccoli si generano scambi, connessioni e relazioni forti. Un binomio, spazio-relazione, che mi pare interessante esplorare, dove lo spazio non è solo fisico, dove la relazione non è solo interpersonale.
Quindi micros – un festival piccolissimo nasce ad agosto, ma in realtà credo sia la somma di alcune riflessioni e cose che sono accadute in questi anni.
Credi che momenti di condivisione più piccoli possano essere in grado di cambiare le cose, come accade per quelli più grandi?
Partiamo dal presupposto che micros è un festival performativo, ma non nel senso che si occupa di arti performative, ma che vuole essere una piccola performance in sé, senza per forza avere l’obiettivo di generare un cambiamento a livello macro, ma sperando che riesca a generarlo a livello micro. Come dicevo prima la molla, forse, è scattata in reazione ad eventi che tendono ad essere sempre più grandi e aggreganti. Ma non ho nulla contro la funzione che i grandi eventi hanno, siano essi legati alla musica o ad altre arti. Anzi, mi piace molto essere parte di una moltitudine.
Non ho deciso di creare micros perché penso che le cose piccole possano funzionare meglio di quelle grandi. Mi interessa innescare piccole relazioni, piccoli scambi, per quelle che sono le mie possibilità.
Ad esempio, il primo appuntamento era intitolato Link/Connessioni ed è stato un talk, che ho definito di prossimità: c’erano 15 persone, circa, tra cui io che moderavo, due ospiti e il pubblico, in un terrazzo di una casa, seduti a cerchio. Dopo i 10 minuti iniziali in cui gli ospiti hanno parlato, tutti hanno preso parte alla conversazione. Tra le persone presenti si sono poi create delle connessioni e una piccola relazione. È una cosa minuscola, che non ha valenza, se non tra quelle persone, ma era una cosa che ritenevo importante. È più facile che nel rapporto one to one possano avvenire dei piccoli cambiamenti, ma è anche vero che anche happening di grande coinvolgimento hanno la loro importanza e una ricaduta di maggior peso.
Guardando le persone che ho attorno, mi sembra che nonostante internet sia arrivato nelle nostre vite offrendoci la possibilità di raggiungere e creare connessioni anche con persone che difficilmente avremo conosciuto nel mondo reale, continuiamo a preferire, o ci mancano, le relazioni vissute fuori dagli schermi.
Per me non esiste un mondo virtuale e uno reale, ma un mondo unico che ha un livello fisico/analogico e un livello digitale. Per capirci: la chat che ho su Whatsapp con mia mamma è digitale non virtuale. È reale tanto quanto una telefonata. È una modalità diversa rispetto a quella fisica senza dubbio, ma è reale. La presenza digitale di micros è decisamente irrisoria, visto che esiste un canale Instagram poco aggiornato e una newsletter, di cui ho mandato solo due o tre mail. Vuole essere qualcosa che presta un pochino più di attenzione al livello fisico, ma che nel digitale ha dei punti di supporto fondamentali: il primo appuntamento è stato diffuso su Instagram e anche questo secondo, ad esempio, senza il digitale non sarebbe esistito.
A proposito del primo appuntamento, come raccontavi tu prima, si è trattato di un momento di incontro tra pochissime persone su una terrazza privata nel quartiere Turro di Milano, con due ospiti: Livia Satriano e Giulia Capodieci. Come mai hai scelto proprio loro?
Come sempre le cose nascono per affinità. Difatti, il tema di questo primo appuntamento era, come dice il titolo, Link/Connessioni e voleva ragionare sulla possibilità di intrattenere rapporti o relazioni non attorno al nostro noi — ovvero cosa facciamo, cosa mangiamo, le foto dei nostri figli, dei nostri successi, ecc. — ma attorno alle affinità elettive, agli interessi, a ciò che riteniamo interessante condividere con altri. L’analisi parte dal fatto che tutti, nessuno escluso, abbiamo una componente egocentrica nella presenza mediale: come facciamo a innescare allora connessioni attorno a un interesse? Il talk era su questo. Io ho portato la mia esperienza con Una cosa al giorno, dove non è mai comparsa una mia foto e, se mi è capitato di linkare cose mie, l’ho fatto con un po’ di ritrosia. Livia e Giulia, allo stesso modo, lo mettono in pratica da sempre: la prima con Libri belli”, un canale Instagram che condivide meravigliose edizioni del passato e Curiouser and Curiouser un canale Telegram ricco di spunti soprattutto visivi. La seconda con Talee, cicli di incontri che rifletto sul binomio vegetale-creatività e Wunderkit. Sia Livia che Giulia creano ecosistemi di relazioni attorno a qualcosa, non attorno alla loro persona.
Quando hai scelto l’aggettivo “aperiodico” per definire micros, pensavi solo alla mancanza di date definite in anticipo o anche al fatto che comunque un incontro, con le sue riflessioni, potesse continuare a vivere con le persone che ne avevano presto parte?
Sicuramente si riferiva al fatto che, rispetto ai festival veri e propri che avvengono una sola volta l’anno, sempre nelle stesse date, micros non avesse quel tipo di programmazione. Ma siccome per definizione muta la sua forma, adattandosi alle esigenze dell’ambiente circostante e tende a contaminarsi, mi piace l’idea che possa rimanere ancora in circolo anche dopo.
Direi che è arrivato il momento di parlare del motivo per cui ti ho rotto le scatole in un venerdì pomeriggio di fine marzo, ovvero essere la prima a comunicare al mondo il nuovo appuntamento di micros.
Si tratta di una mostra fotografica, dove tutti gli elementi che solitamente caratterizzano una mostra sono scarnificati. Si comporrà di una sola fotografia e si potrà fruirne in maniera esclusivamente privata. Non ci sarà un luogo, né fisico né digitale, dove si potrà andare per interagire con la mostra. Semplicemente la spedirò, attraverso una lettera. Una foto con un breve testo curatoriale sul retro. Ovviamente a scoprire il contenuto della fotografia saranno solo le persone che la riceveranno a casa, a meno che, ovviamente, non decidano in un secondo momento di condividerla sui loro profili social.
1:100 Una mostra personale riguarda l’interazione personale e privata che la persona avrà con la mostra, la fotografia, il fotografo che l’ha realizzata e il curatore che l’ha pensata. Questa seconda edizione è, in realtà, la reazione alla mostra, non la mostra in sé che è solo un innesco, così come nel primo appuntamento il centro della serata non erano le parole mie di Livia o Giulia, ma quanto stava avvenendo durante. Quindi probabilmente la seconda edizione di micros durerà qualche secondo, il tempo di aprire la busta e guardare la foto, oppure un quarto d’ora o un’ora. Un minuto.
Dato il format ideato, sarà impossibile per te scoprire la reazione delle persone quando vedranno la fotografia per la prima volta, a meno che ovviamente non ti scrivano in un secondo momento per darti un loro parere. Come ti fa sentire questa cosa?
Devo dire che non mi dispiace, anche perché siamo pieni di questo tipo di riscontri: ogni volta che pubblichiamo una foto su Instagram o mettiamo un articolo su LinkedIn, per esempio, abbiamo riscontri continui, che siano like o messaggi privati. Andiamo a vedere chi mettere “cuore” alle nostre stories o proprio chi le vede. Ormai viviamo per avere la certezza del riscontro (anche quando non avviene). Certo poi che sono curioso, vorrei essere lì con tutte le 100 persone, è ovvio, ma al contempo mi stuzzica l’idea di non sapere nulla, di non avere feedback: non è richiesto che le persone dicano cosa ne pensano.
Rispetto alla fotografia, hai scelto un scatto di Martino Pietropoli. Perché proprio lui?
Perché Martino è un creativo molto creativo. Perché è un fotografo e poi perché è anche un bravo fotografo. Si possono fare delle foto belle o brutte, poco importa, non vuol dire essere fotografi. Lui, invece, lo è: riesce a dire qualcosa con la fotografia. Martino sperimenta con cose che hanno a che fare con l’interazione, dalle newsletter ai podcast, dalle illustrazioni e molto altro. Per questo dico che è “un creativo molto creativo”. Perché riesce ad esprimersi utilizzando tanti linguaggi diversi e lo fa in maniera prolifica. Così, anche qui andando per paradossi, gli ho proposto questa mostra perché sarebbe stato un grande sacrificio per lui concentrarsi su una foto sola. Mi ha subito detto sì, dandomi anche una serie di input, per esempio sul titolo della mostra, ma su tutto quello che riguarda questa seconda edizione. Lo voglio specificare, poi magari lui smentirà, ma Martino è uno stimolatore di creatività seriale. Quindi senza di lui l’idea iniziale non avrebbe avuto questa forma che ha ora. Sulla scelta delle foto è andata così: mi ha mandato una selezione di foto da cui ne ho scelta una, perché quella in particolare aveva, secondo me, la capacità di innescare domande.
Perché, invece, una fotografia?
Proprio perché ogni giorno vediamo centinaia di foto nei nostri feed probabilmente per non più di 5 secondi. Qui spero che ci si fermi per qualche instante in più.
Prima parlavi di abbondanza, ma mi sembra che tu non stia giocando con il suo opposto, o sbaglio?
Il contrario di abbondanza è scarsità certo, ma volendo anche importanza. Ci distraiamo in continuazione, viviamo in flussi di abbondanza continui. 1:100 Una mostra personale vuole cercare di dare valore ad un unità minima, alla reazione che si genera guardando una foto, una sola, in un momento privato.