Studio Leonardo Sonnoli: la grafica non ha nazionalità

Conosciuto e stimato soprattutto dagli addetti ai lavori, lo Studio Leonardo Sonnoli è sicuramente uno dei più influenti oggi in Italia. Riconoscibile non tanto per un suo particolare stile, quanto piuttosto per un metodo progettuale rigoroso ed intransigente.
Sonnoli ci tiene a sottolineare i riferimenti con la grafica estera, in modo particolare quella olandese, inglese, tedesca, ma è invece italiano nel metodo. Progetta partendo da una forte ricerca storica legata spesso alle avanguardie, frequenti sono i legami con il Futurismo e la Poesia Visiva. Il lettering è quasi sempre il punto di partenza dei progetti. Nelle sue grafiche le lettere diventano forme, spesso trasformandosi in oggetti fisici, non è un caso che ami citare la celebre frase di Eric Gill, “le lettere sono cose”.
Insieme a Irene Bacchi gestisce lo studio a Rimini, dove ci siamo incontrati.


Logo ed immagine coordinata per Artissima, 2015.

Trieste, Pesaro, Rimini, hai sempre scelto città di mare.

Non è un caso. Tu sei di Venezia e puoi capire, l’idea del mare è importante. Anche se non lo vedi però c’è, c’è quella linea all’orizzonte, quella linea è importante, per me quella linea è indispensabile.

Partiamo allora dalla tua prima “città di mare”, Trieste. È il posto dove sei nato, il posto dove hai iniziato a frequentare studio Tassinari-Vetta.

Pierpaolo Vetta è stato mio mentore, mio maestro, una persona e un professionista a cui devo tanto: è stato lui a mostrarmi un metodo progettuale che poi ho reso mio con l’andare degli anni, è stato lui a gettare le basi di tante cose. Il principio chiave di Pierpaolo era quello di utilizzare la storia come strumento centrale per il progetto. Lavorava utilizzando un sacco di testi, cercava sempre riferimenti presi dal passato, studiava in continuazione. Ricordo che i primi tempi aspettavo che si alzasse dal tavolo per andare a vedere i libri aperti sulla sua scrivania: volevo capire. Da lui ho imparato ad amare le Avanguardie e le ricerche artistiche che ci hanno preceduto. Grazie a lui ho intuito che le parole potevano diventare immagini: questo fu per me una scoperta straordinaria. Amavo la letteratura, la poesia, e capire che la parola disegnata poteva cambiare anche semanticamente un significato fu per me una rivelazione fondamentale.

Immagine coordinata mostra “Depero Automatico Acrobatico”, Palazzo della Ragione di Mantova,
2022.

Dopo Trieste ti sei trasferito a Pesaro, nello studio Dolcini Associati: cos’è cambiato lì?

Con Dolcini è stato tutto un altro mondo, aveva un approccio al progetto completamente diverso rispetto a Tassinari-Vetta. La sua idea di grafica era molto più naïf, molto più spontanea, libera, istintiva. Dolcini partiva sempre dalle illustrazioni: i riferimenti con le avanguardie non esistevano, la tipografia era quasi sconosciuta. Il suo punto di riferimento era Michele Provinciali, cioè colui che ha portato la poesia nella grafica attraverso un metodo intuitivo, sperimentale, empirico.
Anche lo studio era organizzato in modo molto libero, quasi anarchico: c’erano quattro, cinque persone e ognuno faceva più o meno quello che voleva. Quando arrivai io questo sistema cominciava a vedere i suoi limiti. Dopo due anni lì, quel posto divenne per me insostenibile, troppo lontano dal mio modo di lavorare: gli dissi che me ne sarei andato, Dolcini però mi chiese di restare e di prendere la direzione creativa dello studio. Accettai perché vidi la possibilità di poter riorganizzare il lavoro in modo più vicino al mio metodo e perché avrei avuto un certo potere di azione.

Immagine coordinata per la mostra “Elogio del Dubbio”, Punta della Dogana di Venezia, 2012.

Quando qualcuno parla dello studio Dolcini Associati solitamente non si può fare a meno di citare il mitico, e forse mitologico, tema della “grafica di pubblica utilità”.

La definizione “grafica di pubblica utilità” non l’ho mai sopportata, è stata la storia romanzata e molto ideologizzata di un certo periodo.
Cosa vuol dire “grafica di pubblica utilità”? Se vuol dire lavorare per comunicare le istituzioni pubbliche, beh, questo avveniva ben prima di quell’epoca. In Italia tutto questo è accaduto per una legge degli anni Settanta che obbligava i Comuni a dover comunicare le proprie istituzioni: il risultato fu che lavoravano per la committenza pubblica soprattutto quei professionisti che avevano la tessera di partito del Comune di riferimento. Molti di quei progetti hanno lasciato traccia più nei libri di grafica che nella società. Se noi confrontassimo i lavori di pubblica utilità con i progetti internazionali di quegli anni, ne rimarrebbero a galla pochissimi, veramente pochi. La qualità media di quei progetti non fu eccezionale, anzi. Dolcini è stato sicuramente uno tra più talentuosi, ma c’è ancora oggi molta retorica nel modo di raccontare quel periodo e quel tipo di progetti.

Dopo Pesaro ti sei trasferito a Rimini.

Sì, lo studio Dolcini Associati non andava finanziariamente molto bene: fui licenziato. Tornai a lavorare come partner dello studio Tassinari/Vetta, rimanendo a Rimini. Poi nel 2017 ho fondato lo Studio Leonardo Sonnoli.

Manifesti stampati fronte e retro “3+2” per ISIA di Urbino, 2011.

Un aspetto fondamentale per capire il design del prodotto italiano sono solitamente le figure dei “Maestri”: progettisti che hanno messo le basi per una cultura anche teorica sul design. Hai chiaramente molti riferimenti all’estero, ma secondo te esistono in Italia delle figure nel campo della grafica che possiamo considerare “Maestri”?

I Maestri per me non devono stare per forza in Italia, anzi, in Italia abbiamo imparato da molte figure straniere.

Ok, quindi per trovare dei “Maestri” dovremmo guardare all’estero?

Se volessimo racchiudere la questione in Italia potrei citare il meno italiano di tutti, Max Huber, poi Bob Noorda e Vignelli: ma ovviamente solo quando è andato a New York! [Ridiamo, ndr.]
Ma a parte gli scherzi ci sono stati ovviamente diversi Maestri anche in Italia: per citarne alcuni Albe Steiner, AG Fronzoni, Giulio Confalonieri. Per me straordinario è stato ad esempio tutto il lavoro di Franco Grignani per la sua capacità di lavorare in parallelo tra arte e comunicazione visiva. Ha sempre sperimentato in un campo e l’ha poi applicato in un altro, il suo è un percorso straordinario, ancora oggi attuale.
Maestro assoluto è stato poi Enzo Mari, anche lui come Grignani porta le sue conoscenze artistiche nel mondo del design grafico e del prodotto. Anche lui ha un’idea forte, un obiettivo che persegue con ostinazione durante tutta la sua esistenza. Sono solitamente queste le figure che rimangono nella storia, figure che non passano mai.
Ci sono poi dei nomi che sono stati importanti quando ero giovane studente ma che non hanno mantenuto la stessa forza nel tempo. Ad esempio un Maestro della grafica italiana è stato sicuramente Italo Lupi: per me è stato un punto di riferimento ma il suo modo di lavorare legato molto all’attualità, all’illustrazione, alla fotografia non ha mantenuto quella forza nel tempo. Irene ha uno sguardo molto più contemporaneo del mio e fa più fatica a vedere in Italo Lupi un tipo di lavoro che rimane ancora attuale: lo apprezza, ma ne sente molto l’invecchiamento.

Progetto grafico copertina Domus 1013, 2017.

Insomma certi Maestri invecchiano meglio di altri.

Sì, è così. Un tema poco discusso ma centrale è l’importanza della longevità nella grafica. Produrre materiali visivi che superino le mode, il tempo e lo spazio non è semplice. Ai nostri studenti diciamo spesso di fare attenzione, perché “la moda che state seguendo ora, quando avrete finito la scuola non ci sarà più”, “dovete imparare un metodo, non una forma”. Il rischio è creare immagini usa e getta che durano pochissimo.

Proviamo a raccontare chi è venuto dopo. I figli dei Maestri chi sono? Come hanno “ucciso” i loro padri per provare a raccontare qualcosa di diverso?

La generazione venuta dopo non ha ucciso i propri padri ma si è suicidata. La grafica italiana negli anni Settanta era un importante punto di riferimento internazionale, poi c’è stato il disastro. I motivi sono stati diversi: per alcuni la mancanza di talento, ma per altri il disastro è dovuto ad un radicale cambiamento, un cambiamento strutturale, organizzativo, filosofico. Gli studi di grafica si sono trasformati negli anni Ottanta in agenzie di comunicazione. Il grafico ha cominciato ad occuparsi di tutto e non solo di grafica. Questo ha portato ad un forte abbassamento della qualità progettuale.

Progetto logo per “One Torino”, 2014.

E oggi?

Il contemporaneo è caratterizzato da una vita molto più breve, ogni anno cambia tutto in modo molto più veloce. Viviamo in un’epoca in cui non ci sono più i punti di riferimento, non ci sono più i Maestri.
Capisco un ragazzo che per conoscere cosa succede nel mondo della grafica oggi si affida a Instagram, è un po’ il corrispettivo di quando da giovane guardavo le riviste. C’è una differenza fondamentale però, nelle riviste che leggevo c’era qualcuno che faceva una selezione, c’era un articolo di critica che raccontava e spiegava quello che si vedeva. In questo momento c’è un algoritmo che ti dice cosa guardare, senza nessun apparato critico, senza nessuna selezione, senza nessuna spiegazione.

Progetto grafico “Regina Cassolo Bracchi”, editore GAMeC, 2022.

Secondo voi perché la grafica fa molta fatica ad avere un apparato critico? Molta più fatica rispetto a discipline affini come ad esempio il design industriale o l’arte.

Sono diversi i motivi, il principale è di tipo economico. La grafica è meno importante perché produce meno economia rispetto al design del prodotto o all’arte. Quello sgabello [indica il Mezzadro di Achille Castiglioni a fianco a me, ndr] ancora vende, procura dei soldi a Zanotta e agli eredi di Castiglioni. Qualsiasi libro che vedi qua non procura dei soldi a chi lo ha disegnato, noi grafici non veniamo pagati con il sistema delle royalties, noi non incidiamo sull’economia, o se incidiamo è molto difficile da quantificare.

Quindi la grafica è un po’ la figlia povera rispetto al design del prodotto?

Forse nemmeno la figlia, ma la cugina. Perché la grafica si muove in modi diversi rispetto al design industriale.

Immagine coordinata per Interno Italiano, 2014.

Avete comunque lavorato spesso per il design: ad esempio è vostra l’immagine coordinata per il progetto Interno Italiano.

Sì, all’epoca ci aveva contattato Giulio Iacchetti, ci raccontò che voleva fare “l’anti IKEA”, disse che “in Svezia c’è una produzione industriale anonima, che ci porta ad avere case tutte uguali. La nostra sfida è fare cose fatte in Italia, con la rete artigianale italiana, sponsorizzando un sistema in cui i designer e gli artigiani valgano allo stesso modo”.
Decidemmo di lavorare riprendendo il metodo lirico e poco svizzero di Michele Provinciali: in questo caso ci siamo detti “vado nel cassetto della nonna e tiro fuori tutto quello che ci può essere dentro”. Siamo andati nei mercatini dell’usato e abbiamo cominciato a comprare vecchie cartoline, vecchi libri, vecchie cose e abbiamo fatto un collage di tutto questo. L’obiettivo era raccontare l’italianità attraverso un ritorno alla tradizione e allo storico.

Tovaglia “Lugo”, per Interno Italiano, 2015.

Interno Italiano vi ha poi chiesto di realizzare un prodotto.

Esatto, siamo andati da un artigiano a Santarcangelo di Romagna per lavorare con una antica lavorazione romagnola, la stampa a ruggine1. Di solito questa tecnica utilizza dei moduli che si ripetono, noi abbiamo utilizzato invece un modulo che non si ripete regolarmente ma anzi si modifica ad ogni stampata: come stampare il pattern lo decide l’artigiano stesso realizzando ogni volta dei pezzi unici.

Questo progetto ha l’obiettivo di comunicare una certa “italianità”, ma secondo te ha senso ancora oggi parlare di “grafica italiana”?

Non lo so. Il nostro è un mestiere autoriale, ci sono dei grafici che sono fortemente influenzati dalla storia italiana, dal fatto di vivere qui in questo paese, con questa storia, in questi luoghi, ma non so se possiamo parlare proprio di “grafica italiana”. Ad esempio Mauro Bubbico parte dalla tradizione, la rielabora e ci lavora un po’ come faceva Dolcini: ma quello è un modo solo italiano di fare grafica? Non credo, non mi convince. Partire dalla grafica popolare è “grafica italiana”? Non basta, anche gli olandesi o gli inglesi lo fanno, partono dalla loro storia e la rielaborano. Non credo si possa parlare di “grafica italiana” oggi, esiste la grafica, e ha poco senso darle una nazionalità.

Grazie Irene e grazie Leonardo, mi sa che con questo abbiamo finito.

Grazie a te Tommaso.

Enciclopedie Electa, 2014.
Varie grafiche dinamiche realizzate per la Pinault Collection.
Immagine coordinata della mostra “Stanze, altre filosofie dell’abitare”, Triennale di Milano, 2016.
Un messaggio

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