Un giorno qui in casa abbiamo fatto un gioco: a turno si prendeva da Wikipedia l’immagine del volto di un filosofo o di un compositore — ad esempio Beethoven, Schopenhauer, Kant, Wagner — e la si descriveva a parole a chi poi avrebbe dovuto disegnare il ritratto in base alle indicazioni. I risultati furono esilaranti: i bozzetti non c’entravano assolutamente nulla con gli originali e uscirono fuori volti assai bizzarri.
Giocando, ci rendemmo conto dell’enorme difficoltà della traduzione a parole di un’immagine. Nonostante si trattasse di una faccia — dunque con elementi fissi (occhi, naso, bocca, sopracciglia) — ciò che gli occhi vedevano e ciò che la bocca diceva stavano su due piani completamente differenti, così come le parole, alla fine, apparivano quasi del tutto slegate dai segni tracciati sul foglio.
Ovviamente nel nostro caso si trattava di un puro e semplice passatempo, perché poi chi realizza i cosiddetti identikit, come quelli che vediamo nei film e che usano le forze di polizia, lo fa a livello professionale, e lì la traduzione dalla descrizione orale al disegno è assai più accurata, guidata anche da modelli con molteplici varianti degli elementi del volto.
Che succede, però, se ci si mette di mezzo un’altra variabile? Che succede se ci si trova a descrivere una persona che conosciamo bene, benissimo, meglio di chiunque altra?
Sta qui il punto di un affascinante documentario sperimentale prodotto nel 2017 dall’artista e antropologo statunitense Toby Lee.
In collaborazione con un vero artista degli identikit, Lee fatto tre esperimenti: nel primo un marito doveva descrivere sua moglie, col quale era sposato da 53 anni; nel secondo due gemelle identiche si descrivevano a vicenda (in questo caso l’artista non poteva vederle); nel terzo un uomo cieco provava a descrivere sé stesso (anche qui l’illustratore lavorava dietro a una barriera che gli impediva di osservare il soggetto).
«Attraverso questo processo, le persone intervistate arrivano a riconsiderare colori che danno di più per scontati. Quando i volti familiari emergono de-familiarizzati nella resa dell’artista, siamo sfidati a distinguere tra i diversi registri di come conosciamo i nostri cari — fisicamente, emotivamente, razionalmente — e, a nostra volta, come conosciamo noi stessi» spiega il regista.
Il filmato si chiama Composite, è sottotitolato in inglese ed è, a suo modo, un gran bel viaggio nella mente umana.

