Il nuovo numero di Primary Paper è dedicato alla fede

Si può fotografare la fede? Me lo sono chiesto di fronte all’ultimo numero della rivista indipendente di fotografia Primary Paper; un numero che è dedicato, appunto, al concetto di fede, tanto cruciale per l’esperienza umana quanto sfuggente di fronte alle capacità di comprensione di chi non ne ha. Chi ha fede, la “sente”; chi non ce l’ha, fatica persino a definirla.
Essa si fonda sulla fiducia (fīdĕre) per qualcosa che va al di là dei propri sensi e che sfugge il pensiero razionale.

Da parte mia, ho sempre avuto difficoltà a capire la fede. Se dovessi provare a etichettarmi dal punto di vista religioso — e dunque a semplificare in una definizione ciò che è complesso e inafferrabile, e che costituisce una parte importante della mia vita interiore — mi qualificherei come “un ateo alla ricerca della luce”. Questo significa che non considero il mio “non credere” qualcosa di pacifico, granitico e immutabile — se così fosse, lo lascerei lì da parte, senza dovermene più occupare, e invece ormai da anni consumo una parte significativa del mio tempo attorno ai temi della spiritualità. La fede, tuttavia, non mi ha mai toccato: mi è anzi sempre sembrata una parola vuota quando l’ho sentita pronunciare dalla maggior parte di coloro che sostengono di possederla. Ma poi ne ho trovata un bellissima definizione — luminosa, in tutti i sensi — nel libro Lettera a un religioso della filosofa e mistica Simone Weil: «San Giovanni della Croce paragona la fede a dei riflessi d’argento, poiché la verità è l’oro» scrive Weil. «Le diverse tradizioni religiose autentiche sono differenti riflessi della stessa verità, e forse in ugual misura preziosi. Ma di questo non ci si rende conto, perché ciascuno vive una sola di queste tradizioni e percepisce le altre dall’esterno. Ebbene, una religione si conosce solo dall’interno, come i cattolici giustamente non si stancano di ripetere ai non credenti. È come se due uomini posti in due camere comunicanti, vedendo entrambi il sole attraverso la propria finestra e il muro del vicino illuminato dai raggi, credessero entrambi di essere l’unico a vedere il sole e che l’altro ne riceva soltanto un riflesso».

Felicity Ingram
(courtesy: Primary Paper)
Edward Lane
(courtesy: Primary Paper)

La metafora, tanto potente quanto accessibile, mi ha ricordato una bellissima parabola indiana, che fa parte della tradizione religiosa buddhista e indù: quella dell’elefante e dei ciechi. La racconta Hervé Clerc in un altro libro cui sono molto legato, Le cose come sono: «Alcuni ciechi dalla nascita sono radunati intorno a un elefante. Uno tocca la testa e dice: “Ora so che cos’è un elefante: è come un’enorme giara”. Un altro tocca la zanna e dice al primo: “Non capisci nulla, come si può essere così sciocchi? Un elefante è un vomere d’aratro”. Il terzo, tenendo la proboscide, dice: “Siete tutti e due fuori strada. Un elefante è come un grosso serpente“. Il quarto, toccando la zampa, è persuaso che l’elefante sia simile a un mortaio. Ciascuno tira acqua al proprio mulino, vede la verità brillare da una parte e non dall’altra. E così passano il tempo a litigare».
La fede, ci suggerisce la storiella, quando è cieca, da qualunque parte essa provenga e a qualunque cosa venga applicata — la forma dell’elefante, l’esistenza di dio, la patria, la democrazia, la superiorità di un popolo rispetto a un altro, una dottrina economica, l’infallibilità della scienza, la tecnologia —, si autoproclama portatrice di verità ma in realtà perde di vista il quadro completo, dunque fermandosi ben prima di tentare di raggiungere l’obiettivo.

Per trovare l’oro, l’elefante intero, la luce, occorre aprire gli occhi e la mente. Ciò che fanno i mistici — di qualsiasi religione o tradizione spirituale, e infatti il pensiero mistico ha tantissimi punti in comune, sia che abbia radici nel cristianesimo, nell’islam, nella filosofia greca, nell’induismo, nel buddhismo o nell’animismo: «La contemplazione praticata in India, Grecia, Cina, ecc. è soprannaturale quanto quella dei mistici cristiani» scrive Weil. «In particolare c’è una grandissima affinità tra Platone e, per esempio, san Giovanni della Croce. Così come tra le Upaniṣad indù e san Giovanni della Croce. Anche il taoismo è molto vicino alla mistica cristiana. L’orfismo e il pitagorismo erano autentiche tradizioni mistiche. Così pure Eleusi». Ciò che fanno i mistici, dicevo, è proprio cercare di distogliere lo sguardo dal riflesso (della fede, della religione) per guardare direttamente alla fonte luminosa.

Jose Cuevas
(courtesy: Primary Paper)

Forse, per tornare alla domanda iniziale, e cioè se si possa fotografare la fede, la risposta sta proprio nella luce, che dopotutto è il linguaggio della fotografia. La luce pura, che è verità, non si può davvero catturare in un’immagine: chi dovesse provarci si ritroverà con una foto completamente bianca, la cosiddetta foto bruciata. È però grazie alla luce che colpisce un soggetto che riusciamo a fissare la sua traccia su pellicola o su un sensore. Quindi fotografare la fede significa tentare di acchiappare il riflesso del riflesso della luce primordiale della verità, andandolo a cercare negli sguardi e sui corpi di coloro che la fede la vivono quotidianamente, a livello spirituale o artistico, o ancora folkloristico ed estetico.
Il quinto numero di Primary Paper propone allora un viaggio visivo che si sviluppa in tutto il mondo: da un saggio fotografico del sudcoreano Cho Gi-Seok, che giustappone la cultura tradizionale coreana alla digitalizzazione moderna e si interroga su cosa sia la religione oggi, a Felicity Ingram, che va in Islanda per un editoriale di moda sulle credenze mitiche del folklore locale; da Silvana Trevale e la stylist Daniela Benaim, che si riconnettono alle proprie radici culturali con una moderna interpretazione fotografica dei retablos della comunità latina di Londra, a José Cuevas, che documenta la tribù di Idaw Mahmoud sulle montagne dell’Atlante del Marocco centrale. E poi un’intervista a Jonas Lindstroem sulla sua nuova serie di foto intitolata Believe e sull’importanza di abbracciare l’inaspettato; una collaborazione tra Olivia Malone e Coquito Cassibba (co-fondatrice del magazine insieme a Jessica McGowan) per un editoriale di moda sulla connessione soprannaturale tra uomo e natura; e infine la documentazione di James Perolls e Seunghee Son della tradizionale esibizione di danza mascherata coreana chiamata Bongsan Talchum.

C’è questo e molto altro nelle 184 pagine del volume: tanti frammenti del grande mosaico della fede, da osservare e conoscere, con la consapevolezza di poter cogliere di volta in volta solo un pezzetto dell’inafferrabile quadro d’insieme, che è forse, in fin dei conti, il vero senso della vita.

Olivia Malone
(courtesy: Primary Paper)
Mous Lamrabat
(courtesy: Primary Paper)
Alex Huanfa
(courtesy: Primary Paper)
Cho Gi Seok
(courtesy: Primary Paper)
Olivia Lifungula
(courtesy: Primary Paper)
Silvana Trevale
(courtesy: Primary Paper)
James Perolls
(courtesy: Primary Paper)
Matthieu Delbreuve
(courtesy: Primary Paper)
(courtesy: Primary Paper)
(courtesy: Primary Paper)
(courtesy: Primary Paper)
(courtesy: Primary Paper)
(courtesy: Primary Paper)
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