Come ho già avuto modo di raccontare, prima della vaga ossessione germofoba dovuta sicuramente a questi ultimissimi anni di pandemia, avevo l’abitudine di raccattare cose: dalle più insignificanti — tipo un mozzicone di matita, il pezzo di una sorpresa da ovetto Kinder o una lista della spesa particolarmente buffa che sarebbe potuta finire nell’archivio di Giulio Castoro — fino alle più ingombranti, come una libreria trovata per strada quando andavo a prendere mia figlia a scuola. Il mondo, dopotutto, è pieno di “cose lasciate in giro”, e non tutti i rifiuti sono davvero rifiuti. O meglio, alcuni di essi credono forse di esserlo ma non lo sono (così come altri oggetti sono già rifiuti nel momento stesso in cui vengono prodotti ma non se ne rendono conto): serve solo qualcuno che passi di lì a portarseli via per trasformarli in qualcos’altro, o prolungarne la vita in nuovi contesti e con nuovi significati.
La scelta di prendere o meno qualcosa che è stato abbandonato, o che si è perso, dipende da mille fattori: per gli oggetti più grandi, ovviamente, vale il «posso portarmelo dietro?» e il «dove lo metto?»; ma per quelli piccoli la decisione è questione di sguardo e di attenzione: in parole povere, deve succedere qualcosa, scoccare una scintilla; deve esserci un significativo “fortuito incontro”.

L’espressione “fortuito incontro”, che mi affascina tantissimo, l’ho rubata — giacché si parla di prendere cose — all’artista Massimo Sirelli, che domani presenterà presso il Museo Marca di Catanzaro i suoi Atlanti di Babele, una serie di libri d’artista in formato leporello, fatti a mano uno a uno utilizzando, appunto, elementi trovati in giro per la città calabrese.
«Sono realizzati con materiale recuperato per strada» spiega il comunicato dell’evento, «nelle botteghe artigiane, davanti al mare, nel corso di fortuiti incontri: stoffe, espositori, giornali, carta di mercato, carta di imballaggio della frutta, spago usato dai pescatori e altro ancora».
Sirelli non è nuovo all’uso di pezzi di scarto per i suoi progetti, siano essi i linguaggi della comunicazione oppure i resti che la società dei consumi lascia dietro di sé. Cresciuto coi graffiti poi diventato grafico e art director, in passato ha realizzato opere intervenendo sulle pagine delle riviste o dando in adozione robottini che sembrano avere un anima.
Per gli Atlanti, Sirelli ha fatto il flâneur per le vie di Catanzaro — ché per averceli, i “fortuiti incontri”, bisogna prima mettersi nella disposizione mentale per farli. «Ho rovistato tra la spazzatura come un topo da fogna. Mi sono perso e ritrovato. Ho ascoltato jazz mentre raccoglievo e mentre assemblavo. Ho pianto e mi sono emozionato. Mi è stato chiesto di scrivere un libro senza scrivere niente… Questi libri vanno letti con gli occhi e con il cuore. Vanno toccati, guardati, annusati. Saranno i sensi a tradurre le parole che non si vedono» dice lui stesso.
Sono libri tattili, quelli in mostra. Cose da toccare, oltre che da guardare, costruite con frammenti inconsapevoli che messi assieme danno senso gli uni agli altri, andando a comporre atlanti estemporanei della Babele che è la nostra contemporaneità.
Oltre a Sirelli, il progetto degli Atlanti di Babele — a cura dell’Associazione Culturale La luna al Guinzaglio e di MOON – Museo Officina Oggetti Narranti — coinvolge anche altri luoghi e altre realtà, a Bari, Napoli e Palermo, tutte città portuali che si affacciano sul Mediterraneo.
I libri, in mostra fino al 28 marzo, arriveranno poi al MOON di Potenza per andare a costituire una “Biblioteca Errante”, che poi andrà in giro per l’Italia, arricchendosi via via di nuovi atlanti.

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)

(courtesy: Museo Marca)