Una delle prime cose che bisogna riconoscere, quando si tratta di caratteri, è se ci si trova di fronte a font a larghezza variabile o a larghezza fissa. Questi ultimi, chiamati comunemente monospace, sono caratterizzati da glifi — cioè lettere, numeri, punteggiatura e simboli — che occupano tutti il medesimo spazio.
Ecco un esempio:
Questo è IBM Plex Mono.
È un carattere monospace.
La griglia è fissa.
Questo è IBM Plex Sans.
È un carattere a spaziatura variabile.
La storia di questa tipologia di caratteri è intimamente connessa con quella delle macchine per scrivere, per via dei loro limiti meccanici e per la necessità di poter tornare alla esatta posizione di una battuta per eventualmente correggerla (ma anche, nella limitata disponibilità dei tasti, per creare simboli che non erano a disposizione: oggi, ad esempio, una @ si costruirebbe con una O e poi, tornando nello stesso spazio, una a).
Per decenni le macchine per scrivere hanno avuto font a spaziatura fissa, fin dal primissimo modello commerciale, la cosiddetta Hansen Writing Ball, inventata dal danese Rasmus Malling-Hansen e uscita sul mercato nel 1870 (l’apparecchio, che oggi sembra uscire da una storia steampunk, venne notoriamente utilizzato da Friedrich Nietzsche, che ne acquistò un modello nel 1881, quando stava perdendo la vista: qui una lettera che scrisse con la sua writing ball al compositore Heinrich Köselitz).
Non essendo i comuni caratteri tipografici utilizzabili sulle varie Remington, Underwood, Olivetti, Royal e Olympia — per citare alcuni dei marchi più celebri — i progettisti dovettero disegnarne di nuovi. Alla Olivetti, ad esempio, ne avevano un bel catalogo, mentre la IBM, nel 1956, commissionò al designer Howard “Bud” Kettler uno dei più celebri monospace, il Courier.
Le cose cominciarono a cambiare con l’avvento delle macchine per scrivere elettriche ed elettroniche, che permettevano l’uso di caratteri a larghezza variabile. Quelli a larghezza fissa, tuttavia, non sparirono mai del tutto: passarono dai fogli dattiloscritti agli schermi dei computer e alle stampanti, e ancora oggi, nonostante l’enorme evoluzione della tipografia digitale, continuano a sopravvivere: ne escono continuamente di nuovi (il Plex Mono che ho usato sopra è di pochi anni fa) e sono numerosissime le famiglie di font che hanno delle versioni monospace, utilizzate un po’ ovunque, dai logo ai documenti, dalle etichette alla pubblicità.
La casa editrice tedesca Slanted ha dedicato loro un libro, curato e progettato dalla designer Christina Wunderlich.
Si intitola Mono Moment—Monospace Type Design ed è pensato come una vera e propria guida per orientarsi tra i caratteri contemporanei a spaziatura fissa.
In 208 pagine, il volume ne presenta decine, con esempi, informazioni e interviste a designer, ricercatrici e ricercatori.

(fonte: slanted.de)

(fonte: slanted.de)

(fonte: slanted.de)

(fonte: slanted.de)