Come ti guardi. Come ti guardano: la tesi di laurea di Martina Rubini sull’evoluzione dei canoni di bellezza

Qualche anno fa uscì un corto di animazione che ebbe un grande (e meritato) successo. Si intitolava What is beauty?, era opera dell’illustratrice e animatrice britannica Anna Ginsburg e mostrava, in maniera semplice ed efficace, le enormi trasformazioni del concetto di bellezza femminile nel corso dei millenni — dalla preistorica statuetta della Venere di Willendorf all’epoca attuale — sottolineando, solo attraverso le immagini e senza bisogno di parole, le enormi pressioni che spingono le donne, consciamente o meno, ad adattarsi a canoni e ideali nel corso della loro intera esistenza.
Ciò che viene considerato “bello”, dunque, cambia, ma non si alleggerisce — anzi, tutt’altro! — il peso che le società patriarcali impongono sui corpi femminili.

«Gli standard di bellezza corporea nascono e crescono nutrendosi del contesto storico-sociale in cui vivono» spiega la giovane designer Martina Rubini, «dipendono, quindi, strettamente dalla struttura economica e sociale della società, così la soglia e il significato di ciò che viene considerato brutto o inadeguato variano di conseguenza. Veniamo invitati a pensare che l’importante sia piacere a sé stessi e che si ha costantemente diritto di scelta, intanto ci vengono date indicazioni su cosa sia bello e cosa brutto e si propongono interventi di modifica del proprio aspetto in una sorta di accettazione di sé condizionata dalla capacità di uniformarsi, o comunque di considerare la presenza di canoni di bellezza condivisi».

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Pugliese, classe 1997, Rubini aveva alle spalle una laura triennale in design del prodotto presso il Politecnico di Bari quando si è iscritta all’Università IUAV di Venezia, dove già al primo anno realizzò un progetto dedicato al “bello”: «si intitolava Wow ed era un prodotto editoriale collaborativo che dava spazio ad ogni studente di raccontare, in 10 pagine e attraverso il solo utilizzo delle immagini, il personale concetto di canone di bellezza. In quelle dieci pagine cercavo di raccontare, attraverso una mappatura di diversi volti che meglio rappresentano il canone tipico di diversi paesi, come l’occhio umano è attratto da ciò che è familiare e rassicurante e di come, quindi, la bellezza estetica di una persona sia un concetto relativo che varia di paese in paese, essendo frutto della propria cultura e della società in cui si vive» racconta la designer, che in seguito ha costruito attorno al tema della “bellezza” la sua tesi di laurea magistrale, focalizzata soprattutto sull’evoluzione degli immaginari e dei canoni femminili italiani.

La tesi porta il bel titolo di Come ti guardi. Come ti guardano. Chi ci segue su Instagram avrà già avuto modo di darci un’occhiata ma, vista la complessità del progetto, e l’enorme lavoro concettuale e iconografico fatto da Rubini, le ho chiesto di presentarla qui più approfonditamente.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Introduzione

Siamo cresciuti pronunciando e ascoltando giudizi circa il “bello” e il “brutto”. Quando però veniamo interrogati sul significato ultimo di questi due aggettivi, non sempre siamo capaci di circoscriverli con esattezza. Definiamo bello qualcosa che ci piace, “che desta nell’animo, qualcosa che è esteticamente gradevole”1. È bello qualcosa che può non essere in nostro possesso, che possiamo ammirare senza esserne proprietari, qualcosa che se fosse nostro ci allieterebbe, ma che susciterebbe la stessa sensazione anche se appartiene a qualcun altro2.
Potremmo quindi concludere affermando che il “bello”, come anche il “brutto”, sono due giudizi soggettivi. Non sarebbe completamente errata come affermazione, ma nemmeno corretta.
Non esistono definizioni semplici ed univoche per la bellezza e per la bruttezza, al contrario si tratta di nozioni complesse sviluppatesi in registri simbolici e culturali non omogenei. Il bello è mutabile, cambia costantemente, è in movimento. Ciò che è ritenuto bello dipende strettamente dall’epoca e dalla cultura.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Accanto al concetto di bello, spesso vi è il corpo. Questo può essere conosciuto solo attraverso le sue manifestazioni di genere. Risulta difficile, se non impossibile, immaginare un corpo umano senza connotarlo di un sesso maschile o femminile. Ma vi è una netta differenza fra genere e sesso. Il secondo indica esclusivamente l’anatomia di una persona, mentre il primo sia la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina (identità di genere) ma anche il sistema socialmente costruito intorno a quelle stesse identità (ruolo di genere).  L’appartenenza ad una delle due classi, maschio o femmina, quindi non è dettata dalle differenze di natura biologica o fisica, ma da componenti di natura sociale, culturale e comportamentale, quindi l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico.
Il corpo, di fatto, è un oggetto sociale e come tale il suo significato si definisce solo in relazione agli altri corpi ed elementi che animano la società. I corpi sono una costruzione sociale. Ogni società ha fabbricato una diversa immagine dell’uomo e della donna. Un’immagine che cambia nel tempo e nello spazio, ma che sempre esprime una precisa visione di cosa competa a ciascuno dei due generi. In breve: la società produce i corpi e ciò implica che ne costruisce la loro immagine e ne determina gli usi. Così il corpo si costruisce, prende forma nel corso della nostra vita e delle nostre relazioni, lo modelliamo attivamente nelle scelte di ogni giorno, ma al tempo stesso lo plasmano le istituzioni con le richieste, siano esse sottaciute o imperiose.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Da sempre i prodotti culturali, dai più nobili dell’arte a quelli più prosaici della promozione delle merci, contribuiscono a proporci degli ideali del maschile e del femminile che interpellano le nostre corporeità sessuate, ci mostrano come esprimerci, quali espressioni assumere, come essere. Così iniziamo a guardare, spesso senza rendercene conto, con gli occhi che la cultura ha plasmato per noi. Gli standard di bellezza corporea nascono e crescono nutrendosi del contesto storico-sociale in cui vivono, dipendono, quindi, strettamente dalla struttura economica e sociale della società, così la soglia e il significato di ciò che viene considerato brutto o inadeguato variano di conseguenza. Veniamo invitati a pensare che l’importante sia piacere a sé stessi e che si ha costantemente diritto di scelta, intanto ci vengono date indicazioni su cosa sia bello e cosa brutto e si propongono interventi di modifica del proprio aspetto in una sorta di accettazione di sé condizionata dalla capacità di uniformarsi, o comunque di considerare la presenza di canoni di bellezza condivisi. All’interno della stessa società si crea una certa omogeneità nelle caratteristiche dei visi e dei corpi che vengono considerati belli. Sono stati gli occhi degli artisti, dei poeti, dei romanzieri, dei fotografi, dei politici, dei registi, degli stilisti a scegliere chi guardare e poi a raccontarci e diffondere cosa/chi loro consideravano essere bello, lasciandocene degli esempi.
Col passare dei secoli il peso della società sui corpi si è fatto crescente in quanto le società stesse sono diventate più complesse: cultura materiale, dell’apparire. La donna da sempre inserita in una società di costruzione patriarcale, ha subito maggiormente i danni di questa trasformazione.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

L’archetipo femminile, così, si è costruito nella storia della civiltà occidentale. Solo recentemente, però, si riversa su di esso un interesse particolare, una riscoperta di quegli stereotipi che nell’avvicendarsi di epoche hanno rappresentato e raccontato la donna, contribuendo a formarne di altri, e rendendo a quel punto difficile il districarsene.
Il concetto di bellezza e di canoni estetici sono qualcosa di estremamente radicato nella cultura nostrana. In tutti i mezzi di comunicazione e in gran parte del discorso collettivo sul paese, il tema della bellezza femminile e le donne che nel tempo sono state ritenute le rappresentanti è un punto di riferimento costante. Ancora oggi il concorso annuale di Miss Italia è un evento nazionale che mobilita le energie di tutto un paese attivando da una parte i giornali e dall’altra i lettori di riviste e gli spettatori televisivi. In egual maniera al centro dell’attenzione sono sempre state le donne conduttrici o vallette o veline di trasmissioni o eventi il cui corpo non avrebbe dovuto essere argomento di dibattito. Sicuramente di troppo sono sempre stati i commenti indirizzati alle donne sul palco dell’Ariston che avrebbero dovuto essere giudicate per la sola voce o prestazione come presentatrice. Il linguaggio elaborato, da sempre, per descrivere la bellezza delle donne, usato ancora oggi dalla stampa, non è né neutrale né sempre adeguato. In politica si fa riferimento molto spesso alla bellezza femminile in modo da sottintendere una possibile incapacità nel proprio ruolo. Da sempre le sono attribuiti dei ruoli ben precisi. In generale, madre e moglie: i suoi ruoli biologici. Bella, giovane e femminile: i suoi doveri sociali. Sorridente, silenziosa, felice, indaffarata tra la cura del sé e la cura del suo mondo domestico. Indaffarata sì, ma non eccessivamente, e soprattutto non nei cosiddetti “ruoli da uomo”, causa perdita della propria femminilità. Peccato imperdonabile per lei che è donna, donna dall’identità definita in base ad un sistema valoriale biologico-naturale. Sessuale, ancora meglio.
Il suo corpo è da sempre ritratto di bellezza e oggetto di desiderio, motore che guida l’azione maschile, ma che plasma per somiglianza quella femminile. Modello da perseguire, paradigma da avvicinare, primo strumento da utilizzare. Vi è così una riaffermazione della bellezza estetica come valore principale da attribuire al genere femminile, il quale deve apparire piacevole agli occhi dell’uomo.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

La società ha sempre investito molto sul corpo del genere femminile, corpo che, come detto, deve essere perfetto, piacevole, che deve sottostare a canoni imposti sia dal genere maschile che dal genere femminile stesso. Lo stereotipo legato alla bellezza femminile è oggi diffusissimo: media, cartellonistica, pubblicità di tutti i tipi, politica, lavoro non importa: la donna deve essere di bella presenza. Gli uomini guardano le donne e le donne si guardano essere guardate. Così nella donna nasce un duplice io ovvero il sorvegliante (la parte della donna maschile che si osserva) e il sorvegliato (la parte della donna femminile che si sente osservata3). Così la donna diventa oggetto di visione. Nella comunicazione, dal cinema alla cartellonistica, questa visione avviene in maniera frammentata, restituendo così dei tagli pregiati del corpo femminile. Infatti questo si frantuma, parcellizza, si divide in parti, ciascuna delle quali ha una specificità, una particolarità che va riguardata e trattata in maniera propria, esclusiva e totale.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Nonostante la tematica della bellezza femminile nostrana sia così radicata nella nostra cultura, quello che più mi ha sorpreso, inizialmente, è stato accorgermi dell’assenza di vere e proprie ricerche a proposito e di una taciuta accettazione. La carenza di scritti a riguardo è dettata proprio da questo. La presenza di canoni estetici femminili, fortemente imposti, è talmente intrecciata con il nostro tessuto sociale da passare, il più delle volte, inosservata. Da sempre sappiamo dell’esistenza di canoni, vediamo dei corpi scelti e promossi, corpi molto simili fra loro. Li guardiamo, li studiamo, li giudichiamo e poi decidiamo se conformarci, cosa che accade generalmente, o respingerli. Pochi di noi si domandano sul perché un corpo viene scelto e soprattutto da chi. Cosa rende un canone di “tendenza”, un’icona da seguire. In Italia più che altrove esiste una frattura molto pericolosa tra il mondo “colto e informato” e la popolazione. L’attuale presenza di alcuni scritti, spesso considerati femministi, vede principalmente un’indagine sul ruolo che la donna veste all’interno della società e sull’immagine che i media propongono. Tali ricerche producono un lavoro, per quanto innovativo, teorico che non raggiunge, in alcun modo, la massa, creando un impatto e delle ripercussioni minime sulla società. Il più delle volte tutto questo viene, quindi, colto e approfondito solo da piccole nicchie, spesso etichettate anche con connotazione negativa.

La mia tesi ha, quindi, lo scopo di informare ogni donna e uomo della presenza di fattori esterni, sopra citati, che nel corso della storia e nelle diverse società, createsi nel seguirsi dei secoli nel nostro paese, hanno determinato la creazione di immaginari femminili, comportamentali e in maniera particolare estetici.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)
(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Contesto storico

Il progetto si colloca in un particolare momento storico. È stato molto complesso dover chiudere un discorso che è ancora in atto e che non cesserà mai di evolversi.
Negli ultimi anni e soprattutto negli ultimi mesi ci sono stati diversi avvenimenti che hanno fatto parlare di canoni estetici e di bellezza femminile.
Il più recente vede protagonista Matilda de Angelis nella battaglia body positive per l’acne, iniziata sul social Instagram. «Ci sono cose che non si possono controllare e quest’anno ce l’ha insegnato bene. Per me essere un’attrice e lavorare con il volto mangiato dall’acne è una di queste. Ogni giorno devo presentarmi prima davanti allo specchio e poi davanti alla macchina da presa con tutto il carico emotivo che già comporta ed essere “splendida” in parte e concentrata insieme a tutte le mie paure e insicurezze letteralmente a fior di pelle. Volevo condividere questa piccola verità forse per sentirmi più forte, forse per accettarmi meglio. Le nostre paure ci possono paralizzare o possono diventare una grande forza, sta a noi scegliere la strada. E praticare tanta gratitudine per tutte le cose belle che ci accadono e magari, anche per quelle brutte».

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Un altro avvenimento che merita di essere citato risale a Settembre 2020, quando una foto di Vanessa Incontrada nuda appare sulla copertina del Vanity Fair con la citazione «Nessuno può giudicare (nemmeno tu)». L’attrice e conduttrice voleva così farsi promotrice di un messaggio rivolto a tutte le donne, ed anche agli uomini, e invitare chiunque ad affrontare, capire e celebrare una nuova bellezza. Così con orgoglio e coraggio, l’artista insieme a Vanity Fair diventa l’emblema della body positivity, movimento citato anche prima che mette al bando il body shaming, ovvero ogni forma di bullismo contro il corpo e le sue forme, promuovendo al contrario un’idea di bellezza più inclusiva. Su questa tematica si era anche espresso il direttore della rivista Simone Marchetti affermando «la questione è complicata, vede il corpo delle donne in prima linea e annovera tutto quello che ci è stato insegnato con libri, spot, film, moda, cartoni animati e condizionamenti sociali, culturali e famigliari dagli anni Cinquanta a oggi. In fatto di bellezza, oggi sta succedendo quello che è successo alla terra dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo: là dove si pensava finisse il mondo, ne è iniziato un altro. E là dove si pensava finisse la bellezza forse e finalmente ne sta sorgendo una tutta nuova».

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Accanto a dichiarate manifestazioni di body positive tante sono state le apparizioni di body shaming. Sia Matilda de Angelis che Vanessa Incontrada hanno ricevuto pesanti accuse e con loro anche Aurora Romazzotti che aveva mostrato senza timore, proprio come la de Angelis, il profilo mangiato dall’acne. Un altro avvenimento, proveniente dall’estero, ma che ha riempito social e internet di post e articoli per ben 48 ore di fila, è stata la critica mossa nei confronti della modella armena Armine Harutynnyan, comparsa nella classifica delle 100 donne più sexy del mondo stilata dal direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele. L’aspetto non convenzionale della modella ha portato ad una viralità della vicenda, scatenando la reazione degli hater sui social che la consideravano e accusavano di essere lontana dai canoni di bellezza in vigore. Secondo la filosofa e scrittrice Maura Gancitano «Dietro delle scelte come queste c’è ovviamente una strategia marketing. Ma i creativi di oggi, dagli stilisti agli showrunner delle serie tv, sono consapevoli di quanto la loro opera influenzi la rappresentazione. Quindi ben vengano le scelte di “rottura”, che permettono ai milioni di persone di indentificarsi in spazi preclusi fino a pochi anni fa. La vera rivoluzione sarebbe però rendere cool l’equilibrio. Dobbiamo cercare una giusta misura. Prenderci cura di noi se vogliamo farlo e se serve, senza ossessionarci e senza nemmeno condannare chi sceglie di lavorare sulla propria bellezza. Per anni abbiamo praticato il body monitoring, il controllo ossessivo del corpo e dei suoi difetti. Ora stiamo passando questa abitudine nociva alla faccia»4.

La mia ricerca si colloca in questo contesto storico forse leggermente più incline all’ascolto, anche se ancora vede un gran numero di commenti e di attacchi più che superflui, nati da occhi maschili come femminili.
Gli avvenimenti sopra citati sono il punto di arrivo dell’excursus da me disegnato. In particolare la ricerca del canone ideale e dei suoi promotori e divulgatori ha inizio nella Grecia classica, passando per la Roma Imperiale, il Medioevo, il Rinascimento, il Barocco, l’Ottocento, la Belle Époque, soffermandosi in ogni decennio del Novecento, fino ad arrivare agli anni Duemila.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)
(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Progetto grafico

Come ti guardi. Come ti guardano. Progetto editoriale sull’evoluzione dei canoni è un progetto editoriale che ripercorre quelli che sono stati i diversi canoni proposti nel corso degli anni. Con tono discorsivo, dopo aver informato su quanto è accaduto e tuttora accade dietro le quinte, vuole condurre ad una riflessione, ad interrogarsi. 
Il libro è diviso in tre parti.
I vari aspetti della complessa concezione estetica del bello sono descritti nel primo capitolo, Storia del bello, dove vengono presentati i diversi ambiti entro cui la bellezza gioca un ruolo fondamentale dal punto di vista teorico, dalle arti figurative alla musica, dal cinema alla letteratura.
Nel secondo capitolo, Creazione di immaginari, si inizia a focalizzarsi sulla figura femminile nel contesto italiano. Qui vengono presentati i diversi ruoli che dalla società arcaica fino a quella contemporanea, ogni donna ha dovuto ricoprire. Successivamente vengono presentati gli agenti coinvolti nella creazione e promozione dei canoni, quali la chiesa, l’arte, la politica e i costumi, gli scritti, la moda, le riviste e la pubblicità ed infine il cinema, la televisione e i social media. Si spiega in breve cosa significa la parola “canone” e come la donna viene guardata e si guarda, passaggio importante che darà il nome alla ricerca.
Nel terzo e ultimo capitolo, Evoluzione dei canoni, viene descritto nel particolare quali sono stati gli agenti, i canoni, la donna che ha li ha meglio rappresentati ed infine vengono dati piccoli ed ironici suggerimenti su come diventare una donna dell’epoca.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Il formato editoriale scelto per il libro è un classico formato libro (170×240) per ottimizzare la stampa.
Per la progettazione del layout si è progettata una gabbia di 133×202, per la parte testuale e di 133×217, per la parte destinata alle immagini, quindi i margini interni e esterni sono stati mantenuti uguali in entrambe le gabbie, mutando solo quelli inferiori e superiori. Tali gabbie sono state suddivise in sei colonne.
Si è deciso di assegnare ad ogni capitolo una diversa veste grafica che potesse meglio seguire e raccogliere gli oggetti da inserire. Il primo capitolo, trattandosi principalmente di contenuti teorici privi di una grande necessità di immagine come supporto, vede il testo svilupparsi su tre colonne convergenti verso il centro del libro. Questo permette di inserire piccole immagini, approfondimenti, didascalie e note sulle colonne esterne. Il secondo capitolo vede il testo svilupparsi sulle quattro colonne centrali lasciando la parte bassa libera per l’inserimento di note e approfondimenti. Più importanza inizia ad essere data alle immagini che occupano intere pagine. Il primo e il secondo capitolo sono accomunati dall’uso del colore rosso. Questa scelta non è casuale, bensì tale colore viene utilizzato per rappresentare la rivoluzione e lo stare al mondo e nello spazio5. Inoltre si è deciso di dividere le note bibliografiche dalle note di approfondimento che vedono alcune parole evidenziate di rosso.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Il terzo capitolo presenta una struttura diversa ed è suddiviso a sua volta in tre sotto capitoli. Ogni capitoletto inizia con una doppia pagina di apertura dove viene inserita un’immagine rappresentativa dell’epoca, il periodo in questione ed una citazione. All’interno il testo si sviluppa su tre colonne e mezzo che occupano sempre la parte destra del foglio, qui vengono inserite delle immagini che rappresentano le icone femminili citate. Inoltre è presente una doppia pagina di contestualizzazione storica ed un’altra doppia pagina che presenta una citazione ed un’immagine. Questa interrompe la lettura e introduce la descrizione della tipologia del corpo dell’epoca. Tale testo si sviluppa su tre colonne. Infine ogni capitoletto si conclude con una doppia pagina di consigli per essere una donna dell’epoca. La doppia pagina di apertura e quella di chiusura di ogni capitoletto è del colore di sezione e presenta immagine virate su quella tonalità.
La struttura appena descritta si ripete per tutti e tre i sotto capitoli. Quello che li differenzia è il colore di cui si vestono. Il primo colore utilizzato è il celeste, colore che veniva, in principio attribuito al mondo femminile che principalmente e inizialmente veniva rappresentato solo attraverso iconografie cristiane sotto la veste di Madonna. Successivamente i toni del blu e del celeste furono utilizzati per sottolineare l’appartenenza a classi agiate o per esprimere un desiderio anticonformista. Il secondo sotto capitolo si colora di verde, tale tinta, contrariamente da quanto è solito credere, è il colore dell’amore femminile, in quanto il rosso, colore solitamente attribuito a tale significato è il colore dell’amore nella versione maschilista. Infine il terzo e ultimo sotto capitolo è rosa. Tale colore inizia ad essere attribuito al mondo femminile a partire degli anni trenta quando gli uomini iniziarono ad indossare colori più scuri e le donne colori più chiari che venivano accostati solitamente alla sfera familiare e domestica. Questa distinzione non fu però rigida e si consolidò definitivamente alle fine degli anni ottanta-novanta quando il marketing impose la regola per cui il colore di riferimento per le donne era il rosa, mentre per i maschi blu.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Infine ogni capitolo presenta una doppia pagina di apertura con una citazione ed una doppia pagina di chiusura con una foto significativa sul lato destro.
Il libro presenta, prima che la lettura abbia inizio, una linea temporale sull’evoluzione dei canoni estetici. Questa si sviluppa su una doppia pagina, pieghevole, di formato 330×240 (per un totale di 660×240).

Per quanto concerne la tipografia, sono state utilizzate la font Bianco Serif, realizzata nel 2013 da AlfaType e la font Sempione Grotesk realizzata fra il 2009-2019 da Tipiblu.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)
(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Conclusione

Uno degli aspetti che più colpisce considerando il mito della bellezza femminile italiana è la parvenza di continuità che, dall’alto, gli agenti hanno cercato di mostrare negli anni. Oggi, più di prima, la femminilità italiana viene contrapposta a immagini di bellezza contemporanea proveniente dall’estero. Mentre milioni di donne italiane adottano stili di vita e ruoli sempre più simili a quelli di donne di altri paesi e sempre più disparati fra loro, l’immagine convenzionale che ancora viene promossa dall’Italia è sempre e solo una, anche se ogni anno aggiornata.
La storia della bellezza femminile tracciata in questo scritto, mostra come il fenomeno non sia lineare, poiché la bellezza è stata strumentalizzata e utilizzata da un’ampia gamma di forze, alcune delle quali l’hanno usata in senso decorativo o opportunistico, mentre altre hanno scelto un particolare modello di bellezza come promotrice di determinati valori.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Nel contesto politico dell’Italia ottocentesca l’immagine della popolana bella e giovane si identificò con la sinistra e venne adottata come metafora delle qualità e potenzialità del popolo italiano. L’uso allegorico dell’immagine femminile affondava le sue radici in un contesto in cui la donna non era ancora integrata nella scena politica. Nell’epoca successiva al fascismo, le immagini femminili si prestarono a ridisegnare i simboli e i valori della collettività: le attrici del cinema diventarono le principali rappresentanti dell’unità e dell’identità nazionale. Fino agli anni Quaranta, la bellezza femminile era valutata secondo l’arte rinascimentale. A partire da quel momento i riferimenti pittorici si fecero più rari lasciando spazio al cinema come veicolo principale per creare un ideale di bellezza femminile nazionale. Il cinema produsse icone femminili positive ed esuberanti. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta vi erano un sacco di attrici, principalmente di provenienza umili.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

L’archetipo femminile arriva sino a noi, nella nostra “società dei consumi” del XX secolo e di lì in avanti nel XXI, trascinando con sé modelli di comportamento e canoni estetici altalenanti a cui affiancarsi, per non perdere la propria identità di donna. Per non perdersi, in quel mare magnum di incoerenze che descrivono il tessuto sociale in cui ci arrabattiamo. Modelli e profili di donna camaleontici, che si plasmano a seconda del tempo che respirano e che plasmano il tempo che vivono, oscillanti tra canoni estetici e sistemi morali diversi. Ma profili di donna che serbano in fondo delle liaison, dei tratti unificanti che prendono forma da quegli archetipi costruiti nella storia, e divenuti ormai inscalfibili.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Arriviamo al Ventunesimo secolo. Fino a questo momento i dibattiti sulla bellezza sono stati sempre condotti da maschi su scritti e discorsi, dipinti, foto e film prodotti principalmente dal medesimo sesso. Così si è formata e perpetuata la cultura della bellezza italiana.
Negli ultimi vent’anni, però, anche alcune giornaliste hanno partecipato a questi dibattiti e li hanno fatti propri. La bellezza è un valore largamente apprezzato e per questa ragione per molto tempo i meccanismi di selezione non sono mai stati denunciati. La presenza delle donne, nella nostra società fondamentalmente patriarcale, continua ad aumentare solo a livello di visibilità e non di ruoli effettivamente occupati nella società. Quest’ultima è ancora occupata ad investire tempo e denaro sul corpo del genere femminile, corpo che deve essere perfetto, piacevole, che deve sottostare a canoni imposti.

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)

Quindi, cos’è la bellezza? Cos’è un corpo bello? Può esistere un mondo senza canoni?
Probabilmente è pura utopia. La speranza è che canoni tanto distanti fra loro potranno coesistere così da non escludere alcun corpo, alcun viso. Pensa a quante volte la definizione di bellezza è cambiata. Rifletti sugli ideali che ci sono stati imposti e quante volte e quanto rapidamente sono cambiati. Pensa agli occhi che ti hanno guardata. Agli sguardi che ogni volta hanno deciso se posarsi su di te.
La bellezza pura, e non imposta, è infinita. Non ha specchi, non ha modelli di ruolo. La tua unica coscienza cambia il significato di bellezza. Questa non finisce mai, si muove sempre, è uno stato mentale. La bellezza è illimitata.


Crediti
Studentessa: Martina Rubini
Relatrice: Paola Fortuna
Anno accademico: 2020-2021
IUAV
Fotografie del progetto editoriale: Giulia Nicosia

(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)
(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)
(foto: Giulia Nicosia | courtesy Martina Rubini)
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