A scuola, come più o meno tutte e tutti, ho studiato l’influenza della grafica giapponese sull’arte europea a partire dalla metà dell’800: il cosiddetto giapponismo, che si diffuse subito dopo la fine del sakoku, il lungo isolamento durato oltre 200 anni.
Via nave, sulle rotte commerciali, cominciarono ad arrivare quelle meravigliose xilografie, le stampe ukiyo-e, o “immagini del mondo fluttuante”, che lasciarono un’impronta indelebile prima sugli impressionisti e i post-impressionisti e in seguito sul movimento art nouveau e sugli artisti francesi dell’affiche (Chéret, Bonnard, Grasset, Toulouse-Lautrec, solo per citarne alcuni), da lì irradiandosi e contaminando, attraverso l’arte del disegnare manifesti, tutta la grafica occidentale.
La storia — per coloro che non hanno poi intrapreso un percorso di studi o una carriera nel mondo della comunicazione visiva — solitamente si interrompe qui, lasciando fuori quasi un secolo di evoluzione, sperimentazione e contaminazione a doppia via tra Oriente e Occidente, che hanno caratterizzato l’arte giapponese del manifesto nel ‘900 e nei due decenni del nuovo millennio.
A colmare questa lacuna — o, per chi fa grafica, a dar nuova linfa a un amore bruciante, quello per la grafica giapponese, che prima o dopo ha colmato l’animo di ogni professionista della comunicazione visiva — è arrivato un libro, il più completo finora realizzato sui manifesti Made in Japan dal dopoguerra a oggi.
Si intitola L’arte del manifesto giapponese, l’ha pubblicato Skira e l’ha curato Gian Carlo Calza — già professore di Storia dell’arte dell’Asia orientale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, direttore dell’International Hokusai Research Centre, esperto di cultura e arte giapponese nonché autore di numerosi saggi sul tema — con la collaborazione di Elisabetta Scantamburlo, curatrice, critica d’arte e traduttrice.
Più di 700 poster, 83 autori e autrici
In oltre 500 pagine il volume si articola come un’antologia, presentando, in ordine alfabetico, alcuni tra i più grandi nomi — 83 in totale — del ricchissimo panorama del manifesto giapponese tra il 1955 e il 2020, che è poi stato proprio l’anno delle Olimpiadi di Tokyo, rimandate, come sappiamo, al 2021.
Essendo il Giappone un paese in cui i confini tra design grafico e pubblicità non sono netti come in altre culture — il progettista Satoh Taku, autore di uno dei saggi introduttivi, suggerisce che di confini non ce ne siano proprio e che questa sia «la premessa da cui bisogna partire per apprezzare appieno la cultura contemporanea del manifesto giapponese» —, tra le centinaia di opere raccolte nel volume ce ne sono, senza distinzione, sia di commerciali che di personali.
Per ciascun autore e ciascuna autrice c’è una breve scheda biografica e, in alcuni casi, ci sono anche delle mini-interviste con risposte a domande come «Perché ha deciso di diventare un designer?», «Qual è stato il suo primo importante progetto e perché?», «Come pensa che la grafica sia cambiata negli ultimi decenni?», «Quale graphic designer ha avuto un maggiore impatto per lei?».
Proprio da quest’ultima domanda si evince quale sia l’autore che ha avuto il maggior impatto sulla propria e sulle successive generazioni, e cioè il grande Kamekura Yūsaku, anche lui, ovviamente, presente nel libro.
Nato nel 1915 e morto nel 1997, Kamekura — come suggerisce uno degli intervistati, Irobe Yoshiaki, classe 1974 — è «colui che ha posto le basi del graphic design in Giappone e ne ha spiegato la professione».
Co-fondatore e direttore del Nippon Design Center, direttore della rivista Creation, presidente della JAGDA, grande e prestigiosa associazione di professionisti e professioniste giapponesi della grafica, Kamekura è stato anche l’iniziatore di quel toccante progetto che è Hiroshima Appeals (si può vedere, qui sopra, il manifesto con le farfalle che vanno a fuoco e precipitano) e, soprattutto, colui che disegnò il logo olimpico di Tokyo 1964, universalmente considerato tra i più belli di sempre.
A ricordare l’enorme influenza di questo straordinario progettista e artista, inoltre, nel 1999 venne istituito, due anni dopo la morte, il Yūsaku Kamekura Award, che premia i migliori designer: molti dei nomi presenti in L’arte del manifesto giapponese, non a caso, l’hanno vinto.
Il libro è dedicato a Nagai Kazumasa
Se dunque Kamekura si può considerare come una sorta di ideale “spina dorsale” del libro, citato innumerevoli volte nelle biografie, nelle interviste e nei saggi che introducono il volume (firmati da Calza, da Scantamburlo e da Satoh Taku), un altro autore da non dimenticare è Nagai Kazumasa, che oggi ha 92 anni ed è tra i più premiati a autorevoli designer a livello internazionale (suo, tra l’altro, lo stemma dei Giochi Olimpici Invernali di Sapporo 1972). A lui è dedicato l’intero libro, dove in copertina appare uno dei suoi manifesti, intitolato Alcool giapponesi e realizzato nel 2016 per il Nihon Design Committee.
Parlando del potere di un medium come il manifesto, soprattutto alla luce delle evoluzioni della comunicazione visiva nella nostra era digitale, Kazumasa dice: «Io non ritengo che essi [i manifesti] abbiano il potere di comunicare o rendere conosciuto universalmente qualcosa nel modo in cui lo può fare la tecnologia digitale, ma quando la grafica sia considerata come cultura, ci rendiamo conto che essa continua a possedere uno status estremamente elevato. […]. Lo strumento del manifesto, io penso, è un genere adatto a far sì che il grafico possa dimostrare le proprie capacità e la propria arte. La sfida sarà come trasmettere tutto ciò alla prossima generazione». Aggiungendo poi un suo personale turbamento, che è anche un suggerimento: «Se ho una preoccupazione per i giovani è l’enorme quantità di tempo che passano a guardare nel computer e negli smartphone durante la loro vita di tutti i giorni. Ci sono ovviamente vantaggi in questi strumenti, come la comunicazione attraverso l’email e l’essere in grado di raccogliere nuove informazioni. Tuttavia l’informazione che si può spigolare dallo schermo di un computer è informazione che qualcun altro ha già procurato — e alcune di tali informazioni possono anche essere in errore. L’inghiottirle in un boccone e trarne delle idee è privo di originalità. Più di ogni cosa ritengo che i grafici debbano esperimentare la realtà da se stessi».
Ma al di là dei nomi storici che hanno dato lustro al design contemporaneo del Giappone, uno degli aspetti in assoluto più preziosi di un’opera come L’arte del manifesto giapponese è l’aver inserito tanti progettisti e tante progettiste delle ultime generazioni: gente nata negli anni ’70, ’80, persino ’90 (la più giovane è Kashiwagi Mitsuki, classe 1993. Quando lei nasceva, Kamekura vinceva il 6º International
Design Award di Osaka).
Sono e saranno loro il presente e il futuro dell’arte dei manifesti, proprio mentre il paese del Sol Levante è entrato in una nuova era: «Siamo anche nel passaggio tra l’era Heisei (1989-2019) e l’era Reiwa appena cominciata: ancora una volta la grafica si farà senz’altro portavoce e interprete di questo inizio» scrive Elisabetta Scantamburlo nel suo saggio introduttivo.