Da piccolo ero convinto che i cavalli avessero le sopracciglia. Delle grosse, scure sopracciglia, tipo quelle di Zachary Quinto. Fu il mio compagno di materna Stefano G. a mettermi in testa l’idea: un giorno eravamo al tavolino a disegnare, avevo appena finito di colorare un cavallo marrone e lui, che era di fianco a me, lo guardò attentamente e, dopo aver detto che il disegno gli piaceva, mi fece notare che avevo dimenticato le sopracciglia.
«Ah già», feci io, in effetti non del tutto persuaso, ma che potevo saperne di cavalli se non ci ero ancora mai salito sopra? E quindi — colpo di pennarello sopra a ogni occhio — ecco le sopracciglia, che per un po’ disegnai pure sulle tigri e che per lungo tempo (anni! Credo fino alle medie) rimasero su ogni ritratto di esemplari del genere equus: non solo cavalli, ma anche zebre e asini.
Smisi solo quando, di fronte all’evidenza, dovetti ammettere che effettivamente le sopracciglia non c’erano. Fu una grande delusione, come quando scoprii che Rockeduck si chiama in effetti Rockerduck o che nel cartone animato Creamy c’erano Posi e Nega e non Posi e Mega (non avevo proprio afferrato la questione del polo positivo e negativo).

(foto: Frizzifrizzi)
Oggi, in veste di spettatore, mi godo le medesime “sviste” con le mie figlie. Il continuo rinegoziare tra la loro percezione della realtà e la rappresentazione che ne danno; gli “errori” che a volte si cristallizzano per un po’ nella loro mappa mentale finché non vengono improvvisamente “scoperti”, accompagnati da una piccola, dolce e comprensibile vampata di vergogna.
La grande, gran lettrice, che sa un mucchio di parole ma, avendole spesso incontrate solo nella lingua scritta, sbaglia tutti gli accenti («ah, si dice bàratro? Non baràtro?»); la piccola che è ancora nella fase in cui disegna bocche sorridenti a qualsiasi creatura — vermi col sorriso, api col sorriso, mucche col sorriso — e ritrae persone con braccia lunghissime, teste sproporzionate e gambe di diverse lunghezze.
A vederli su un foglio di carta, i disegni di bambine e bambini, ci si stupisce per l’immaginazione e per la percezione di ciò che hanno attorno. Ma se dovessimo provare a trasferire davvero quegli esseri sbilenchi nel mondo reale?
È quello che qualche anno fa ha iniziato a fare Tom Curtis, un direttore creativo britannico che ha pensato di dare, con Photoshop, un tocco di realismo ai disegni dei suoi due bambini, Dom e Al, tirandone fuori ritratti tra l’inquietante e l’assurdo.
Nel 2015 Curtis ha aperto un account su Instagram, @thingsihavedrawn, cominciando con un gatto, che è poi diventato questo gatto.
Ovviamente l’idea ha avuto un enorme successo e negli anni il progetto ha raccolto oltre 800mila follower e una grande quantità di articoli da magazine online e riviste di tutto il mondo, aprendosi poi anche ai contributi di bimbe e bimbi al di fuori della famiglia Curtis.
Nel 2017 Tom, Dom e Al hanno anche pubblicato un libro, Things I Have Drawn: At the Zoo, che racconta la storia dei tre che vanno appunto a vedere gli animali, disegnando tutto quel che si trovano davanti — la giraffa, la zebra (senza sopracciglia), l’ippopotamo, la tigre, la scimmia, il canguro, la raganella, la farfalla, il ragno, lo squalo, la capretta, ma anche il guardiano, il gelato e i mezzi che si usano allo zoo, riportando poi le traduzioni fotorealistiche dei disegni nelle foto, aprendo di fatto una finestra su una realtà tanto comica quanto disorientante e vagamente perturbante.
Il libro ora è arrivato anche in Italia, pubblicato da Il Saggiatore col titolo di Allo zoo con papà, un volume di 144 pagine dove il rinoceronte ha i piedi tondi, l’ippopotamo pare un tricheco con quattro zampe, il pipistrello ha le ali a zig zag e la capra sembra un demone.

(foto: Frizzifrizzi)

(foto: Frizzifrizzi)

(foto: Frizzifrizzi)

(foto: Frizzifrizzi)

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(foto: Frizzifrizzi)

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