Quelle espressioni di una lingua intraducibili in qualsiasi altra sono già affascinanti di per sé, perché raccontano qualcosa di intimo e profondo della cultura che le ha coniate. In Italia ne abbiamo diverse, spesso legate alla cosa che forse sappiamo fare meglio in assoluto: mangiare. Quando ci dimostriamo troppo puntigliosi cerchiamo il pelo nell’uovo; abbiamo una minestra riscaldata quando cerchiamo di presentare come nuovo qualcosa che non lo è più (e che probabilmente prima andava via come il pane), probabilmente dopo aver allungato il brodo il più possibile ed essersi accorti che, alla fine, era come cavare il sangue da una rapa; facciamo un bell’abbiocco dopo un pranzo pesante — che magari era una spaghettata in compagnia, di sicuro con gente che ci andava a fagiolo.
Queste potenziali gemme da “lost in translation” diventano ancora più interessanti quando la loro origine è incerta e si perde nella notte dei tempi, come è il caso di uno dei gesti più rappresentativi della pienezza dell’italico amore per la tavola: la scarpetta.
Non c’è origine certa del termine, né una spiegazione univoca del perché si paragoni il raccogliere il sughetto con un pezzo di pane a una piccola scarpa. Secondo Treccani, nell’italiano scritto la locuzione è entrata solo di recente, e alcune fonti citano origini romane mentre altre più vagamente “meridionali”. Non siamo d’accordo nemmeno sul galateo: teoricamente vietata dai manuali di buone maniere, viene ammessa in alcuni casi ma c’è chi dice che si possa chiudere un occhio a chi agisca infilzando il pane con la forchetta, e chi invece sostiene che, se proprio scarpetta dev’essere, allora è inutile nascondersi dietro a un’affettata eleganza, ed è meglio procedere con le dita.
Ovunque stia la verità, rimane il fatto che la scarpetta è un piacere, e come tale va vissuto. E soprattutto, se si sceglie di non indulgere, restano gli avanzi di sugo nel piatto, e sono proprio questi ad aver ispirato a due giovani designer una linea di stoviglie che ironicamente celebrano l’usanza di spazzolare per benino la pietanza.
Il progetto si chiama, appunto, Scarpetta, e le due ideatrici sono Astrid Luglio ed Ester Bianchi, rispettivamente designer del prodotto e graphic designer. Entrambe laureate alla Naba di Milano, Luglio e Bianchi sono molto attive nei rispettivi ambiti, sia con lavori in proprio che attraverso collaborazioni e collettivi.
L’idea di unire le forze e lanciarsi nella creazione di un marchio tutto loro è arrivata, ovviamente, a tavola. «Questo progetto», raccontano, «nasce a stomaco pieno, alla fine di un pasto semplice ma saporito, tanto che non si fa in tempo a fotografarlo, nel piatto rimane solo qualche gustoso avanzo con cui fare la scarpetta».
Quegli stessi avanzi hanno ispirato le composizioni grafiche che stanno sul fondo di ogni pezzo della collezione, a confondersi coi reali resti di cibo prima che questi vengano spazzolati via. E non si tratta di avanzi “qualunque”, ma di quelli di sei tipiche ricette regionali: la panzanella toscana, le “virtù teramane” abruzzesi, le sarde in saor venete, il cous cous alla trapanese, la pasta con le “vongole fujute” napoletane, e il risotto alla milanese.
I piatti, in tre formati, sono stati realizzati con la tecnica dell’enamelware e sono in alluminio, rivestiti in porcellana. L’estetica gioca sul sottile confine tra una semplicità classica e spartana e un gusto molto contemporaneo. Ogni pezzo, dicono Luglio e Bianchi, «racconta una storia, quella della cucina popolare italiana, in cui si evitano sprechi e ci si ingegna per utilizzare ogni avanzo della credenza dandogli una nuova dignità in tavola».
