Wombstories: storie (felici e dolorose) di uteri

Nei miei quarant’anni e poco più di vita ho assistito a mestruazioni che non finivano più, ho visto piangere nella sala d’aspetto del pronto soccorso in attesa della pillola del giorno dopo. Ho sentito pregare nella speranza che quelle perdite non fossero niente di grave, ho percepito il dolore soffocato dal doversi mostrare forti e “normali” in pubblico. Ho ascoltato le urla in sala parto, ho visto nascere due bambine, non ne ho vista nascere una (o uno?) che avrebbe potuto esserlo. Ho abbracciato chi l’utero aveva dovuto farselo togliere, ho avvertito l’imbarazzo, la paura, la felicità, lo smarrimento, la rabbia, lo scoramento, la trepidazione, gli sguardi vuoti, il crollo. Ma da fuori, sempre da fuori. Da spettatore.

Sono un uomo, un utero non ce l’ho, e per quanto possa sforzarmi di empatizzare, per quanto possa stringere forte una mano (come in Cattedrale, di Carver) o osservare il linguaggio del corpo per provare a catturare almeno un segno, una proiezione superficiale delle emozioni che passano sotto la pelle, non ci riuscirò mai. E più di una volta mi sono trovato a rimproverare me stesso — troppo tardi — quando avrei dovuto star zitto e invece ho parlato, nell’arrogante illusione di poter comprendere e dunque giudicare.
Quindi ora me ne sto zitto, abbraccio il mio ruolo di spettatore e lascio la parola alle immagini — potentissime, intense, in certi momenti devastanti — di Wombstories.

Commissionato da Bodyform, marchio britannico di prodotti per l’igiene e della salute femminile (il brand è di proprietà dell’azienda svedese Essity, che in ogni paese ha un marchio differente: da noi è Nuvenia), Wombstories è un filmato diretto da Nisha Ganatra — che produsse la prima stagione della serie tv Transparent e ne diresse alcuni episodi —, realizzato mettendo insieme immagini girate con attrici e attori in carne ed ossa e animazioni create ad hoc, con tecniche e stili differenti, da alcune artiste internazionali: Laura Jayne Hodkin, Carine Khalife, Salla Lehmus, Kate Isobel Scott, Haein Kim, Roos Mattaar, Annie Wong e Nella Addy.

«Raccontiamo alle ragazze una storia semplice: hai il ciclo intorno ai dodici anni. Affronti un po ‘di dolore. Hai dei bambini. Quindi ancora mestruazioni. E poi a cinquant’anni circa il tuo corpo è destinato a ritirarsi educatamente.
Ma non è mai così semplice. Le storie invisibili, non dette e sconosciute delle nostre mestruazioni, delle vulve, degli uteri — le nostre wombstories1 — sono molto più complesse e profonde.
Sono storie vere di amore e odio, di piacere, dolore e di dolore così forte che è una malattia con un nome, endometriosi, storie di nostalgia e di tentativi di avere bambini. E di non voler mai figli. Mai. La gioia della nascita. Il dolore della nascita. E la silenziosa devastazione dell’aborto. Storie di cicli precisi come un orologio. E di quelli in tilt. Di inizi imbarazzanti e di conclusioni peri-menopausali da montagne russe. Storie belle. Storie brutte. Quelle banali. Quelle profondi. Amare. E dolci.
E tutte loro, tutte le nostre wombstories sono valide, normali, reali come quelle di tutte le altre. E nessuna di noi dovrebbe nascondere ciò che sente dentro».

Il messaggio — tanto semplice quanto complesso ma, soprattutto, cruciale — è appunto che tutte le storie, belle o brutte, dolorose o felici, sono normali, reali, e vanno quindi vissute e condivise.

P.S.
Su YouTube, dov’è stato pubblicato, il filmato è soggetto a restrizioni in base all’età, quindi ci adeguiamo alla scelta e anche noi lo pubblichiamo sotto “age gate”.

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