Un documentario sulla disegnatrice Laurie Lipton

«Non c’è nessuno, su questo pianeta, che abbia disegnato più di me. Nessuno. È tutto ciò che ho fatto. Non ho cucinato. Non ho fatto figli. Ho solo disegnato. È l’unica cosa che so fare. È l’unica cosa che faccio».

Si apre così, con una considerazione che ha il sapore amaro ma lieve dell’accettazione e della consapevolezza, Love Bite, un documentario realizzato dal filmmaker canadese James Scott che vede come protagonista l’artista americana Laurie Lipton,

Classe 1953, nata a New York e ora di base a Los Angeles dopo una vita di traslochi — dagli Stati Uniti ai Paesi Bassi, dai Paesi Bassi al Belgio, alla Germania, alla Francia, al Regno Unito — Lipton da cinquant’anni a questa parte non fa che disegnare, realizzando opere disturbanti, rigorosamente in bianco e nero, utilizzando la tecnica del tratteggio incrociato.

Ha incominciato da bambina, quando a otto o nove anni il padre le regalò delle penne Rapidograph. Invece di uscire a giocare, invece di divertirsi con gli altri della sua età, lei stava nella sua camera a disegnare. Ragazzina gentile e tranquilla, aveva un alter ego “maschiaccio” che le faceva odiare gli abitini femminili, e disegnare cose disturbanti.
In un paio di occasioni, nel documentario, Lipton mostra i disegni che faceva da piccola, già pieni di dolore, seppure bellissimi.

«Disegno le cose che mi disturbano. E la morte cominciò a infastidirmi all’età di sei o sette anni», dice. E nel documentario di Scott si intuisce da dove arrivino i mattoncini che sono andati negli anni a costruire il suo immaginario: una tipica famiglia della classe media americana, ma di spirito anarchico; la vita suburbana durante il boom economico, con le braci dell’insoddisfazione a covare sotto la facciata di perbenismo; una mente fervida; una predisposizione per la solitudine e un talento cristallino fin dall’infanzia; e un trauma, che quando aveva appena cinque o sei anni cambiò del tutto, e per sempre, la sua percezione della realtà.

«Ciò che c’è tra me e la carta… Entra in gioco tutto, la mia intera vita. C’è una bambina molto ferita in tutti i miei lavori. E quella bambina è ancora in me».

Nonostante ciò che disegna, Lipton non ha però l’aura eccentrica di un dandy come Edward Gorey, né gioca con il suo personaggio offrendo un’immagine di sé misteriosa e “maledetta” che probabilmente gioverebbe di più alla sua reputazione e soprattutto al suo conto in banca. È una invece una bella e sobria signora che ha l’età di mia madre e che non ti aspetteresti vedere concentrata sopra un immenso foglio di carta a disegnare teschi, casalinghe dallo sguardo diabolico, vecchie cannibali e scenari post-apocalittici.
«Le persone sono sempre deluse quando mi incontrano perché pensano “oh mio dio, sembri così normale”, qualunque cosa sia normale», chiosa ridendo.

Sul perché della scelta cromatica (o meglio, non cromatica), Lipton — che confessa la grande influenza avuta su di lei dall’arte fiamminga, scoperta per la prima volta durante il suo primo viaggio in Europa — spiega che «il bianco e nero è il colore dei fantasmi, è il colore dei vecchi programmi tv, è il colore dei ricordi, delle vecchie foto di famiglia. È il colore del passato e del desiderio. È quasi il colore del pensiero».

Proprio da quel bianco e nero è rimasto affascinato James Scott, che ha visto per caso uno dei disegni di Lipton sulla copertina di un suo libro e, come racconta in un’intervista a Vimeo, è stato letteralmente magnetizzato dall’opera.
Era il 2011, e Scott ha immediatamente cercato di mettersi in contatto con l’artista.

Il documentario, sul quale ha lavorato per ben quattro anni, è stato selezionato nei principali festival a livello mondiale, e premiato come miglior documentario breve al Warsaw International Film Festival, all’Orlando International Film Festival e al Rome International Film Festival.
Tra gli ospiti — oltre a galleristi, collezionisti e commercianti d’arte — anche il grande regista e disegnatore Terry Gilliam.

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