La nuova generazione dei designer italiani vive le figure dei maestri con ammirazione, ma anche con l’esigenza di contestare molti dei principi che li avevano caratterizzati. C’è in questo atteggiamento la necessità di emanciparsi da “padri” certamente importanti, ma anche ingombranti e portatori di metodi e idee che si vogliono superare.
Matteo Ragni non sembra condividere questa posizione, anzi, sposa gran parte dei principi progettuali dei Maestri e ne propone un aggiornamento linguistico seguendone la filosofia di base. È affascinato dalla loro opera e allo stesso tempo la guarda con distanza, tanto da attuare con disinvoltura una sintesi di tante posizioni, anche molto differenti tra loro, che in qualche caso diremmo essere in antitesi. In lui possiamo trovare infatti sia il piacere del segno forte di Mendini, che l’approccio didattico di Munari, sia l’eclettismo di Gio Ponti che la riflessione etica di Mari. Il tutto viene miscelato con naturalezza, senza apparenti contraddizioni. Per Ragni i principi dei maestri sono ancora validi e compito del designer non è sostituirli con altri, ma continuare ad attualizzarli.
La sua idea di progetto prevede il rapporto con le aziende. Sono moltissime le collaborazioni e le art direction con le storiche industrie del design italiano come Danese, Fantoni, Poltrona Frau, Campari, Guzzini, Nodus, e tante altre. Ha ricevuto due volte il Compasso d’Oro. Ha realizzato progetti di tutte le tipologie classiche del design: sedie, lampade, imbottiti e librerie. Si differenzia però dai Maestri per aver lavorato su varietà di prodotti inusuali, come ad esempio occhiali, tombini e carte da parati. Sarebbe sbagliato definirlo un “Maestro dei nostri tempi”, i suoi lavori sono differenti dai suoi predecessori. È semmai un designer che crede che dai Maestri ci sia poco da copiare e molto da imparare, rispettandone la filosofia prima che le forme.
Ci incontriamo nello suo studio di Milano. Mentre beviamo un caffè mi dice, «questo tavolo l’ho sistemato stamattina, perché arrivavi tu. È un evento molto raro, ma l’ho fatto in tuo onore, pur sapendo che non troverò più nulla in questo ordine forzato».
… che poi tu ti sei laureato in architettura. Nel secolo scorso era normale trovare un designer-architetto, oggi è molto più raro.
Sì, ho studiato architettura, però la mia passione è sempre stata il design. Il primo lavoro di progettazione lo trovai quando ero al secondo anno di università. Nello studio di Carlo Pagani: era un architetto un po’ scorbutico che aveva imparato il mestiere da Gio Ponti. Fu per me un vero maestro. Mi disse: «tu che sei architetto, non devi guardare i palazzi come fanno tutti gli altri, li devi guardare dal primo piano in su. Devi osservarne le facciate e i sistemi costruttivi…». Grazie a lui capii che siamo abituati a vedere soltanto quello che c’è nel nostro perimetro, ci autolimitiamo di continuo. Il giorno che mi disse quelle parole uscii dal suo studio guardando solo in alto: ero in moto e in via Dante mi prese in pieno la portiera di un fiorino. Distrussi la moto e mi ruppi il ginocchio, ma ebbi uno dei più grandi insegnamenti della mia vita: osservare le cose da prospettive diverse, cercare di vedere quello che gli altri non vedono.
Tra i tanti Maestri è evidente l’influenza di Bruno Munari, lui sembra essere stato particolarmente importante per te.
Sì, è vero. Il designer è un po’ come un cocktail, fatto di tanti ingredienti, tante esperienze e insegnamenti: certamente Munari è il componente base, direi l’equivalente del rum nel Cuba Libre.
Ricordo che vidi Munari dal vero il giorno del suo compleanno, in Triennale. Quando fui a cinque metri da lui mi fermai, non volevo andare oltre, avevo paura di rovinare tutto. L’ho sempre guardato da distante.
Trovo molto bello che ad un certo punto della sua vita, all’apice della sua carriera, abbia smesso di progettare oggetti e abbia cominciato a progettare persone. Credo che sia quello che dovrebbe fare un designer, perché noi non incontriamo dei clienti, ma persone con cui condividere dei sogni.
Parti dai Maestri ma hai un’idea di progetto che è soprattutto il frutto di esperienze e linguaggi successivi. Le mostre e le iniziative culturali di Opos hanno proposto una filosofia progettuale che ha influenzato un’intera generazione di designer. C’era un’idea di fondo: creare oggetti che contenessero un messaggio prima ancora che una funzione, o meglio, che la funzione dell’oggetto fosse prima di tutto il messaggio.
Opos è stata per me la mecca del design, il futuro. Le loro mostre erano sempre in culo al mondo, ma non c’era discussione, in ogni modo ci si doveva arrivare. Quelle esposizioni, quegli incontri sono stati un punto di riferimento importante, fondamentale.
Opos è stata l’apertura verso un mondo altro, diverso. Era bellissimo vedere che progetti speculativi, di pura ricerca, si trasformavano in prodotti per l’industria.
Maestri come ad esempio Mari e Sottsass hanno sempre accettato un margine di contrapposizione con l’industria. I designer Post-Maestri come te hanno come peculiarità una sorta di riappacificazione con essa. È magari una riappacificazione instabile, che ha bisogno di una continua mediazione, ma tu parli spesso dell’esigenza di avere con l’industria un rapporto “amichevole”.
Esatto, è così. Spesso i designer ti dicono «io lavoro per Cappellini, Cassina, Flos» o qualsiasi altra azienda: io dico che non lavoro “per” le aziende, ma “con” le aziende. Sembra un facile slogan, e forse lo è, ma semplifica bene il mio modo di pensare il rapporto con l’industria. Non so perché sono così simbiotico con le imprese, forse dovrei andare dallo psicologo, ma non riesco a fare altrimenti: per me l’industria è un’amica con cui condividere un percorso di crescita.
E secondo te, qual è la funzione del designer nelle aziende?
Molte aziende sono come i cavalli che trasportano i calessi, vanno avanti con i paraocchi, sono capaci di leggere il loro mondo, fanno però fatica ad immaginare nuovi campi di azione. Il compito del designer dovrebbe essere quello di aiutare ad alzare un po’ lo sguardo. Questo non significa che l’imprenditore debba smettere di pensare all’imminente, al domani: pagare gli stipendi, trovare il modo di ammortare il costo degli stampi e tutto il resto, ma dovrebbe essere aiutato a vedere le cose da altre prospettive.
Gli imprenditori hanno due problemi che spesso non sanno di avere: il primo è una questione di identità, non sanno chi sono e il designer dovrebbe aiutarli a capirlo. Il secondo problema è che le aziende tendono ad abituarsi a fare sempre le stesse cose e nello stesso modo, ma prima o poi si scontrano con il cambiamento dei mercati e il designer deve essere in grado definire una rotta alternativa e credibile.
Un esempio di percorso “alternativo e credibile” è stato il progetto W-eye.
Sì, è così. Intorno al 2008 venni invitato in Friuli ad un incontro di imprenditori per parlare dell’imminente crisi globale. Ricordo che era tenuto in una villa bellissima e che arrivarono tutti con i macchinoni. Finito di fare la mia conferenza, durante il buffet, mi avvicinò un tale diverso dagli altri: camicia a scacchi al posto di giacca doppio petto.
Si complimentò per il mio intervento e mi disse «sono un falegname. Produco stampi di curvatura del legno per le aziende del Friuli. Ho un’idea, ma non so come realizzarla e se la faccio vedere a qualcuno ho paura che me la rubino». Avevo già bevuto qualche bicchiere di buon vino friulano e gli risposi tranchant: «Cosa vuole che le dica? La lasci nel cassetto: tra un anno qualcuno avrà la sua stessa idea e lei si mangerà le mani per non averla realizzata prima».
La settimana dopo si presentò nel mio studio e mi mostrò un brevetto da lui registrato: era l’accoppiamento di due materiali, legno e alluminio, da utilizzare in campo ottico. Questa evoluzione tecnologica rende il legno leggerissimo e allo stesso tempo incredibilmente flessibile. Gli dissi che era una cosa geniale, assolutamente fantastica. Consigliai di costruirci attorno un marchio: lo guidai a creare un nuovo brand, lo chiamammo appunto “W-eye” e così progettammo i primi occhiali.
Dopo dieci anni, la loro storica azienda terzista non produce più per altri, ma sono diventanti editori dei loro prodotti: produttori di occhiali che hanno un valore aggiunto incredibile. Nel 2012 sono anche stati vincitori del Premio dei Premi consegnato dal Presidente della Repubblica Italiana, per l’innovazione aziendale. Ma la cosa più importante è stata creare valore ed aver dimostrato ai produttori del legno curvato che esistono altre strade possibili rispetto alle sedie.
Diversi designer contemporanei sono critici nei confronti dei principi progettuali del Novecento, in particolar modo l’idea del “design per tutti”, il “design democratico”. Tu sei molto più morbido e conciliante rispetto a quel passato.
Per me design è accessibilità, è possibilità di poter essere comprato e capito dal maggior numero di persone possibile. Credo sia addirittura superflua la definizione, “design democratico”: il design o è “democratico” e accessibile, o non è design.
Eppure diversi progettisti sostengono che oggi la partita del design si giochi nel campo del lusso, nell’alta gamma e non nella produzione a basso costo. Tu cosa ne pensi?
Per me il lusso non è un fatto di prezzo. Quando sono stato in Colombia, ho visto una famiglia che ci metteva sei mesi a produrre un vaso: capisci, sei mesi! È questo il lusso? È la produzione di oggetti molto belli, ma con tempi produttivi dilatati e che inevitabilmente costano molto? Io non credo. Penso anzi che il “lusso” siano quei prodotti che riescono ad accendere un’emozione, un innamoramento con chi li utilizza, e non è detto che siano le cose che costano di più, anzi, spesso non è così.
Il design è “democratico” anche quando può essere compreso da tutti o da più persone possibile: chi è il tuo utente tipo quando progetti?
Ti risponderei volentieri la famosa “casalinga di Voghera”, ma non è la realtà. Oggi è diverso, esistono casalinghe di ogni tipo. Il mondo non è uno solo, ma è fatto di tante nicchie. Da questo punto di vista la società è completamente cambiata.
Come dici tu «la società è cambiata» e con essa è cambiato il design. A differenza del secolo scorso i designer hanno la consapevolezza di realizzare prodotti che molto probabilmente non saranno eterni, ma avranno una loro durata nel tempo e nell’arco della loro vita verranno sostituiti da altri. L’idea dell’oggetto icona, che rimane superando le epoche e i cambiamenti sociali, non sembra centrale nel progetto contemporaneo.
Per un periodo della mia vita gli oggetti icona erano qualcosa di negativo, soprattutto perché venivo sistematicamente riconosciuto come “quello del Moscardino”, e a me questa cosa non piaceva per niente: ora non è più così, ho realizzato anche altri progetti che la collettività riconosce come interessanti, quindi non sono più solo “quello del Moscardino”.
Ho avuto sempre il timore degli oggetti icona, ma oggi il mio ideale è cercare di creare prodotti che restino nel tempo. A me piace pensare che gli oggetti vivano oltre a me, risponde a quella naturale esigenza di eternità che forse abbiamo tutti.
Oggi ho un solo dubbio: non so se un oggetto in plastica biodegradabile sia il modo migliore per cercare l’eternità.
Chissà, forse è vero il contrario. Forse il materiale che meglio rappresenta l’oggi è proprio la plastica biodegradabile.
C’è un tema che mi è stato proposto dai designer: l’esigenza di avere una critica che prenda posizione, sia militante rispetto alla disciplina e non si appiattisca alla rielaborazione delle cartelle stampa.
Anch’io sento molto questa esigenza. Trovo che le riviste siano spesso schiacciate da logiche di mercato. È molto difficile trovare dei contenuti di critica. I critici indipendenti, come lo sei tu, hanno molta più libertà e possono permettersi di “schierarsi per il bene dell’umanità”, ma sono pochissimi, veramente troppo pochi.
Io credo che ci sia oggi una sorta di buonismo che non ci fa bene, abbiamo invece estremo bisogno di un dibattito serio sul design.
Esiste secondo te un design italiano? C’è un comune denominatore che caratterizza ancora il modo di fare design in Italia?
Molti spiegano la specificità dell’Italian Design parlando del particolarissimo tessuto imprenditoriale italiano fatto di micro imprese: trovo corretto questo, ma credo che ci sia dell’altro.
Credo che una caratteristica del design italiano sia l’accoglienza, la naturale predisposizione italica a confrontarsi con il diverso. Se guardi ad esempio il Nord Europa, loro sono molto restii a chiamare progettisti italiani. IKEA lavora praticamente solo con designer scandinavi, mentre già più di settantanni fa Adriano Olivetti chiamava progettisti da tutto il mondo: Andries Van Onck, Max Huber, Hans von Klier e molti altri. L’obiettivo era far incontrare persone diverse, farle dialogare per poter creare qualcosa di veramente nuovo. Questa è la ricchezza dell’Italia. Non è un caso che quando vai in una casa italiana ti diano il benvenuto con un caffè fatto con la moka: credo che il design italiano sia questo, un certo modo di vivere la parola “accoglienza”.
Trovo bello concludere con la parola “accoglienza”, so che non l’hai scelta a caso.
Il designer è una persona che vorrebbe cambiare il mondo. Si potrebbe dire che fa politica, ma lo fa con gentilezza o come direbbe Munari «senza che nessuno se ne accorga».
Grazie Matteo.
Grazie a te Tommaso.