Scrivere un libro a difesa di Yoko Ono deve essere come porsi dietro un’immaginaria barricata a lanciare aeroplanini di carta a cui si sono affidati i dettami dello straordinariamente poetico Grapefruit (sì, si può capire molto chiaramente la mia fazione), mentre dall’altra parte si è bersagliati da altrettanto immaginarie e insidiose freccette.
È abbastanza intuibile con che stato d’animo Matteo B. Bianchi si sia disposto a scrivere un libro che non è solo protezione, in un certo senso, di un personaggio del cuore, ma addirittura una “dichiarazione d’amore per una donna circondata d’odio”.
Yoko Oko è ed è stata a tutti gli effetti, forse, la donna più conosciuta a sud e nord dell’equatore come l’armageddon dei “Fab Four”, la distruttrice venuta dal Sol Levante, “Lady Dragon” (come la chiamavano alcuni), “The Witch” (La strega, come la chiamavano i più). E ancora sopravvive tutt’oggi questa convinzione, soprattutto fra i cultori dei quattro di Liverpool. Ma non solo. Il pensiero è diventato pressoché comune e massificante.
Insomma, come tutte le leggende, quella di Yoko Ono e della sua potenza catastrofica è dura a morire.
Ci sono volute dichiarazioni nel tempo di tutti i membri dei Beatles per allontanare questa visione delle cose. È arrivato George Harrison e Living in a Material World di Martin Scorsese, a mettere i cosiddetti puntini sulle i. Tant’è che lui stesso, se si conosce un po’ di storia musicale, collaborò alla Plastic Yoko Ono Band, come Ringo Starr. Non tutti lo sanno. Non tutti lo vogliono riconoscere.
Eppure, gli affezionati di Yoko, quelli che nonostante le critiche reiterate ci sono e alle fiere si soffermano a cercare i suoi dischi e magari possiedono una copia di Grapefruit, e magari conoscono il suo passato artistico e le sue performance, tendono a vivere questa fascinazione come dei carbonari.
Doveva arrivare questo libro rivoluzionario (e forse non a caso per metà rosso) a farci alzare la mano e contarci. A dire: «Ci sono anche io!». E questi “io” in effetti sono tanti. Perché l’opera di Matteo B. Bianchi ha riscosso una grande curiosità editoriale e successo tra i sostenitori convinti di questa grande artista.
Con lo stesso coraggio e anche una buona percentuale di senso di avventura, ammettiamolo, Matteo B. Bianchi ha deciso di lanciarsi in un’altra impresa che possiamo tranquillamente definire fuori dall’ordinario. Da scrittore, ma — va detto — da grande conoscitore della discografia di Yoko Ono, ha pensato di mettere insieme alcuni fra i nomi più interessanti del panorama indie italiano per reinterpretare i grandi successi della nostra musa.
E così il 1° febbraio è uscito suONO. The italian indie tribute to Yoko Ono. “Suono”, gioco di parole a suggellare quello che è un “amoroso” tributo musicale. Dieci vere e proprie visioni secondo quelle che sono le sensibilità degli artisti coinvolti e vanno dall’alt-rock all’electro-clash, dalla lo-fi ballad alla modern samba. Un vinile in edizione limitata a 500 copie (di cui 200 gialle), pubblicato dall’etichetta Labellascheggia.
L’artwork di copertina è stato affidato — tenetevi forte — a Olimpia Zagnoli, nome stellare dell’illustrazione italiana conosciuta a livello internazionale. Che ha lavorato per il New York Times, il New Yorker, l’Atlantic, disegnato copertine per Feltrinelli e campagne pubblicitarie per Apple, e che trovate con regolarità nell’inserto domenicale di Repubblica, Robinson.
Questa la tracklist del disco in versione completa:
Populous & Lucia Manca, Toyboat
Egokid, Death of Samantha
Effe Punto, Take me to the land of hell
Diva ft. Lamporama, Hell in paradise
I Camillas, Mrs. Lennon
Boosta ft. Gaia Trussardi, Walking on thin ice
M¥SS KETA, KISS KISS KISS
Lemandorle, Every man has a woman who loves him
Mezzala & Nino Dangerous, Nobody sees me like you do
Bonetti, I remember everything
Un tappeto sonoro elettrificato di pezzi che dialogano fra loro pur nella loro peculiare bellezza. Il “fil rouge” è l’amore per Yoko.
Vorrei chiudere questo pezzo con tre riflessioni.
La prima riconoscendo il grande merito di Matteo B. Bianchi di averci fatto uscire allo scoperto e di averci fatto sentire meno soli. Oltre a quello di aver messo insieme un album di altissimo livello musicale.
La seconda spendendo del tempo per soffermarmi su una realtà italiana piccola ma attiva come Labellascheggia. Un’etichetta indipendente nata per produrre vinili e progetti editoriali di artisti emergenti e promuoverli sul territorio con l’organizzazione di piccoli eventi e showcase.
Labellascheggia è una produzione in bassa scala, di vinili numerati e realizzati a mano uno ad uno, e per questo unici.
Mette insieme soggetti diversi, da musicisti, ad artisti, grafici, illustratori, per coinvolgere voci variegate del panorama culturale arrivando a progetti che possiamo tranquillamente definire di “artiginato artistico”. Queste sono realtà che vanno incoraggiate e sostenute. Quindi viva i ragazzi de Labellascheggia”.
La terza è che vorrei un po’ frivolamente rivelare qual è il mio pezzo preferito. Loro sono gli Egokid e la canzone è la struggente Death of Samantha.
Da Zazie è tutto ripasso la linea a Frizzifrizzi.