Viviamo in un’epoca in cui il più potente strumento di produzione artistica e culturale è immateriale, appena un concetto, trasversale a tutte le discipline: il campionamento.
«Proprio come le lettere del nostro linguaggio sono metafore di suoni specifici, e le parole sono metafore di specifiche idee, le schegge della stessa cultura ora formano un tipo di linguaggio che quasi tutti sanno come parlare. Gli artisti non hanno bisogno di chiarire quelle che vogliono dire, è molto più facile usare il materiale preesistente: filmati, ricerche in biblioteca, vecchi giornali, dischi in vinile e via dicendo. Il compito dell’artista è mescolare (montare) i frammenti e, quando necessario, generare frammenti originali per riempire gli spazi» scrive David Shield nel suo provocatorio e seminale saggio/manifesto Fame di realtà.
Un ottimo esempio di questo spirito è un’animazione realizzata da cinque studenti della scuola danese The Animation Workshop: August “Poul” Niclasen, Timon Chapelon, Aylen Solander, Thinh Nguyen e Lilja Björg Jökulsdóttir.
Si intitola Deepness Of The Fry e si apre con una voce femminile dal tono impersonale e robotico che si chiede «in un mondo in cui nessuno è unico, cos’è che mi rende speciale? Cosa mi fa risaltare sugli altri? Cosa mi rende unica?», spiegando poi che tutto è già stato detto, tutto è già stato fatto, niente è originale, nessuno è originale, e così via, lungo quella che ha tutto l’aria di essere una profonda crisi esistenziale e creativa, raccontata attraverso spezzoni di altre animazioni. Un bell’esempio, intelligente, di come la tecnica e la poetica — quella del remix — possono essere la dimostrazione stessa del contenuto che comunicano.