«La parola è ora un virus. Una volta forse il virus dell’influenza era una cellula polmonare sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia i polmoni. Una volta forse la parola era una cellula neurale sana. Ora è un organismo parassita che invade e danneggia il sistema nervoso centrale. L’uomo moderno ha perso la facoltà di scegliere il silenzio. Prova a frenare il linguaggio subvocale. Prova ad arrivare anche a soli dieci secondi di silenzio interiore. Ti confronterai con un organismo antagonista che ti costringe a parlare. Quell’organismo è la parola. In principio era la parola.»
Così scriveva un lucidissimo William Burroughs (lo so, apparentemente sembra un ossimoro) nel suo Il biglietto che esplose, secondo (o terzo, dipende dalle interpretazioni) volume della cosiddetta trilogia Nova, che segue il più celebre Il pasto nudo ed è stata realizzata con la famosa/famigerata tecnica del cut-up.

(fonte: behance.net)
Nella trilogia, la tesi del grande padre tossico della Beat Generation è che il linguaggio sia in realtà un virus extraterrestre che attacca le varie civiltà che incontra, distorcendo la realtà allo scopo di ottenere una forma di controllo totale (e riorganizzare la realtà è una cosa che a sua volta fa Burroughs con il cut-up: se ne parla qui in un saggio molto, molto interessante) .
È ciò che, in maniera molto più banale e (per ora) meno estrema, vediamo accadere tutti i giorni. Parole che deformano la realtà, che dirottano una narrazione dalla sua linea originale, che creano e riconfigurano i frame.

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Le parole sono dei dispositivi potentissimi ma allo stesso tempo assai fragili. Ed è su questa fragilità, sulla possibilità di ricombinare, destrutturare, ricontestualizzare e “avvelenare” la comunicazione originale che si basa il progetto di un gruppo di studenti del corso di Comunicazione e Design dell’Editoria dell’ISIA di Urbino.
Partendo proprio da Il biglietto che esplose, Fabio Bacchini, Gianluca Ciancaglini, Giacomo Dal Prà, Alessandro Latela e Luca Longobardi, sotto la supervisione del professor Davide Riboli, hanno prima lavorato sul progetto editoriale del libro e l’hanno poi reso protagonista di una performance improntata alla distruzione.

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Gli studenti hanno affettato, sparato, affogato, murato il romanzo di Burroughs e sia l’azione che il suo risultato sono diventati materiale per una mostra: The book that exploded.
«Così come nei Cut-ups di Burroughs, in cui le informazioni vengono ricomposte tramite un principio randomico, nell’azione di avvelenamento dell’oggetto libro, la casualità diviene il perno della ricerca. Una casualità che permette una ricodificazione degli elementi formanti un idioma. Il prodotto editoriale, progettato tramite un codice preciso e verticale come oggetto divulgativo senza tempo e senza filtri, viene dunque stravolto e depredato della sua funzione principale, quella di comunicare in maniera chiarificatrice e obiettiva. Lo stesso processo fisico, fluendo nelle diverse azioni di contaminazione, porta il codice del linguaggio a mutare e a indebolirsi, o a velarsi e rafforzarsi, e così via», spiegano gli studenti, che realizzando il progetto non hanno voluto sposare posizioni retoriche e concettuali ma semplicemente innescare una riflessione sul linguaggio e sulla comunicazione.

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