Dall’isola in cui è nato e cresciuto ha preso i colori. Dall’accademia l’umiltà e l’etica del lavoro. Da Venezia l’Arte con la A maiuscola e l’Amore, maiuscolo anche quello.
Artista, curatore, fondatore della galleria ed associazione culturale No Title Gallery e, di tanto in tanto, anche collaboratore di Frizzifrizzi, Francesco Liggieri è innanzitutto una persona con cui staresti a discutere di arte per ore e ore.
Nessuno dei due aveva così tanto tempo a disposizione, purtroppo, ma in un paio di serate di chiacchierate su Messenger siamo riusciti a parlare del suo lavoro di artista e di curatore, di come ha iniziato, di come mette i titoli alle opere (spoiler alert: Francesco è sempre su Spotify), di che libri legge, di quali artisti vorrebbe curare una mostra.
A proposito di mostre, in questo caso il protagonista è lui. Il prossimo 18 marzo, infatti, inaugurerà presso Basement Project Room | arte contemporanea a Fondi (LT), la personale di Francesco, intitolata Volevo fare l’astronauta.
L’esposizione, che resterà allestita fino al 22 aprile 2018, è a cura di Alessandro Di Gregorio.
L’intervista che segue sarà pubblicata anche sul catalogo della mostra.
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Chi è Francesco Liggieri? E quando ha cominciato a “esistere” come artista e curatore indipendente?
Come artista ho iniziato molto presto, già in tenera età, alle elementari, i miei compagni mi avevano etichettato come “Quello che disegna sui tavoli” e poi mi hanno incoronato artista, io che all’epoca non sapevo neanche cosa facessero gli artisti. Invece in maniera professionale dal 2005, anche come curatore. Era il mio ultimo anno di Accademia, misi su una mostra collettiva e da lì è nato tutto il resto.
So che spesso è una “storiella” inventata a posteriori, ma se dovessi identificare un momento in cui ti sei detto «Ecco, la mia via è quella dell’arte», quale sarebbe?
Il momento esatto è un pomeriggio a pesca con mio padre. Sono cresciuto a Pantelleria e da lì provengono molti dei miei colori. Mio padre fin da piccolo ha provato a trasmettermi la sua passione per la pesca, con scarsi risultati. Mentre pescavamo, gli chiesi cosa si aspettava che io facessi da grande. Lui mi guardò e disse: «Fai quello che ami fare. Se fai quello che ami, il resto verrà da sé». E così ho capito che volevo entrare a far parte del mondo dell’arte.
Per me è stato naturale prendere quella strada.
A proposito di colori, quanto credi possa averti influenzato nascere in posto così? So ad esempio che un pittore come Giorgio Morandi prendeva “appunti” sul colore dalle piccole cose: un sasso, una spiga di grano, la carta di una caramella.
Morandi è stato un pittore meraviglioso, senza di lui molti di noi, intendo le nuove generazioni, non avrebbero mai potuto capire quanto sia fondamentale prendere “appunti”.
Crescere in un posto al sud, qualsiasi sud ti permette di sviluppare un certo senso del colore, che nel mio caso è una sensibilità molto profonda del blu e dei suoi fratelli. Crescendo in un isola, sicuramente il blu del mare mi ha forgiato. È qualcosa che non puoi mandare via né dimenticare. Cresce con te.
Come i suoni di un dialetto, le parole del lessico famigliare: te le porti dentro finché non muori. E l’Accademia, invece, cosa ti ha dato? O, per meglio dire, cosa hai preso?
L’accademia, per me che ero un autodidatta (ho un diploma in ragioneria), fu importante. Ho preso molto, moltissimo da quelle aule e corridoi pieni di tele e odore di trementina. Le materie le potevi trovare nei libri e nelle dispense, ma quello che era il talento, la tecnica, il confronto, beh, quello l’ho trovato solo nei miei compagni di corso e di mostre.
C’era competizione tra voi studenti?
Sì, della sana competizione. Era un luogo ad alta concentrazione di egocentrici. Alcuni potevano permetterselo perché il talento era davvero grande, altri un po’ meno. Ma tutto quell’ambiente ti insegna ad essere umile e a lavorare. Almeno a me ha insegnato questo. La competizione mi è sempre piaciuta, ma ero consapevole dei miei limiti.
Quali erano, o quali sono, questi limiti?
Ai tempi dell’accademia avevo una tecnica basata sull’autodidattica, era un forte limite. Vedevo i miei compagni usare, a volte, la metà del tempo che ci mettevo io a realizzare un lavoro. Poi ho studiato quello che facevano loro, le tecniche che usavano, e ho recuperato. Studiare Picasso e Matisse mi furono molto utili.
Oggi il mio limite più grande è essere appunto un “accademico”, uno che con l’età tende sempre di più a perfezionare tecniche e opere. E questo può essere un problema, perché la pittura contemporanea va nel senso esattamente contrario: priva di tecnica e priva di perfezione. Ma questo limite negli ultimi anni sono riuscito a gestirlo meglio quando dipingo astratti. L’astratto mi permette di non ricordarmi da dove vengo artisticamente.
Non riesco a capire se quel «priva di tecnica e priva di perfezione» tu lo dica con un velo di disprezzo o uno di ammirazione.
L’uno e l’altro. A me piace la pittura classica, ma anche quella moderna e contemporanea. Mi piace moltissimo Richter ma anche Raffaello. Mi piace la pittura di Matisse ma anche quella di Close eppure tra questi ci sono divari tecnici enormi. Forse dovrei solo dire che mi piace la pittura, tutta.
E la fotografia? Se penso alle tue opere, in quelle più figurative sembra ci sia una certa influenza dell’inquadratura fotografica: nelle prospettive, nelle pose, nel dinamismo.
Sì, hai perfettamente ragione. La fotografia è alla base dei miei recenti lavori. Posso usare fotografie che recupero in rete o nel cassetto di amici o nell’album di famiglia. Questo è una buona base di partenza per raccontare, un po’ come quando da piccoli attraverso le foto ti dicevano: «Questa è la mamma quando aveva la tua età». Ecco, ho trovato sempre una certa magia nelle fotografie vecchie, così ho iniziato ad usarle come base di partenza per i miei lavori. Poi lascio fare ai colori e alla fantasia del momento.
In molte di quelle opere (adesso ad esempio ho sotto gli occhi la tua tela Magnolia, che trovo bellissima) sembra quasi di vederla la foto da cui proviene. O meglio, di sentirla, come una eco che arriva da un’altra dimensione.
Sì, ecco mi fa piacere che tu la senta. Vedi, «dipingere è il mestiere di un cieco» diceva Picasso, e secondo me aveva perfettamente ragione. Quando le persone sentono il mio quadro la risposta è che gli ricorda qualcosa, qualcuno, un momento, una sensazione. Ed è lì che la pittura vince, perché fa sentire allo spettatore qualcosa che, nel mio caso specifico, è un ricordo lontano, proveniente da chissà dove.
A questo proposito, recentemente ho letto alcune righe bellissime scritte dal critico dell’editoria Federico Novaro, che parlava di un’antica foto che aveva acquistato. Te le leggo: «Questo acquisto, fatto a un’età in cui inizio a sentire il problema di cosa si lascia sulle spalle dei superstiti quando moriremo, mi dà un indizio: tutto ciò che ancora ci interroga, tutto ciò, cioè, da cui possiamo trarre delle risposte, teniamo; tutto ciò che ci pare muto, via».
Credo che dopotutto sia davvero così. E credo che questa possa anche essere una buona definizione del concetto di arte. Che ne pensi?
Sì, lo credo anche io. Difatti se pensiamo alla storia dell’arte, fortunatamente abbiamo tenuto opere meravigliose che tanto hanno da dire e che continueranno a dire. La domanda che mi pongo io è: chissà se i posteri avranno altrettanto fortuna con le opere di oggi?
E per arte intendo tutto, dalla letteratura al cinema alla danza…
Prima dicevi che con l’astratto riesci a sentirti meno “accademico”, quindi, immagino, anche più libero.
Tra astratto e figurativo diresti dunque che è il primo quello che senti più istintivo, più tuo?
Sì, direi di sì. Sai, dipingere è sempre un bel gioco per me. Dipingere astratti mi permette di raccontare in maniera diversa da un figurativo. L’istinto, del resto, non è istruito, è innato. Mentre il figurativo mi rende civilizzato ed educato.
Sì, decisamente l’astratto mi permette di essere libero. Per quanto il figurativo mi permette di raccontare le persone, che per me sono sempre un elemento di studio molto interessante.
Nelle opere degli ultimi anni, vedo che getti una sorta di ponte tra i due mondi, astratto e figurativo. E lo fai attraverso le linee geometriche.
Altra passione, passione che proviene dall’unire le costellazioni. In altre parole unisco le stelle, che generano le geometrie che inserisco in alcuni quadri. A volte invece le geometrie si sommano ad altre geometrie e si creano altre costellazioni.
Sì, un ponte c’è di sicuro, e raccontarlo passo per passo sta diventando importante.
Correggimi se sbaglio: le stelle non sono un tema molto in voga nel mondo dell’arte contemporanea, giusto? Per esempio in architettura — me l’ha fatto notare un bel libro illustrato per bambini che mi hanno spedito di recente — fino a un paio di secoli fa l’astronomia era ovunque: perché guardavamo molto di più il cielo, che faceva parte integrante della vita di ognuno. Oggi abbiamo smesso.
Già dici il vero, abbiamo smesso. Però se ci pensi quanto è affascinante? Tutti quei colori che raccontano nebulose, galassie, buchi neri e stelle. Lo trovo affascinante. Ed è un altro elemento importante che mi porto dal venire da un isola del Sud, guardare alle stelle.
Sicuramente abbiamo perso la voglia dello stupirci di fronte alla bellezza della natura e non. È un po’ come quando qui a Venezia vedo la gente fotografare monumenti senza neanche soffermarsi a guardare con i soli occhi, e non soltanto con il telefono.
Abbiamo smesso di interessarci alle piccole cose che ci rendevano felici? Forse. Ma ho speranza.
Te lo devo chiedere perché sono un appassionato di astronomia fin da bambino: costellazione preferita?
La mia costellazione preferita è Orione.
Anche la mia!
A me piace perché la si puó vedere pressoché da qualsiasi parte tu sia. E poi ha una complessa struttura di nebulose al suo interno… Ne vado matto.
Quindi il nome della mostra viene da quello, dalle stelle?
Anche, ma non solo. Il titolo è un pretesto per riflettere sulle occasioni e i sogni perduti. Da piccolo ognuno di noi voleva fare qualcosa che da grande magari non è riuscito a fare. Io ad esempio volevo fare l’astronauta! Questo non raggiungere l’obiettivo non significa che una persona sia da buttare via, anche se spesso questa società in cui viviamo ci dice esattamente l’opposto.
Ecco, questa mostra ha diversi messaggi, ma quello a cui sono più legato è il seguente: mai buttarsi via, nonostante le cose vadano male, mai arrendersi.
A te quando sono andate male? Nel tuo percorso artistico, intendo.
In genere combaciano quasi sempre con i momenti in cui hai davanti organizzatori, curatori o critici alle prime armi. Questo avviene spesso durante i primi anni di attività, quando sei senza esperienza e ti fidi a priori. Fortunatamente mi sono capitati poche volte nel percorso che ho fatto.
Tu sei anche curatore e direttore artistico della No Title Gallery. Come e quando hai deciso di imboccare anche quest’altra strada nel mondo dell’arte?
Tutto è nato da discorsi avuti con altri artisti negli anni. Secondo loro, essendo io un artista e avendo una certa esperienza nel campo dell’organizzazione e della produzione di mostre, dovevo provare a curare altri artisti. Così ho pensato a un luogo ideale e a un modo ideale per dare spazio a giovani artisti attraverso mostre in giro per l’Italia. È nato tutto in questo modo, un’altra maniera di fare arte.
Da curatore, di quali artisti ti piacerebbe curare un mostra. E da artista, che curatore vorresti?
Mi piacerebbe curare un pittore. Se fosse Richter sarebbe il top, ma chiaramente è un sogno. Invece come curatore mi piacerebbe lavorare con Obrist.
Avendo a che fare con altri curatori, cosa credi che cambi quando a fare il curatore è un artista, quindi uno che conosce bene bisogni e problematiche di chi sta dall’altra parte?
Harald Szeeman diceva: «Il curatore deve essere flessibile». A volte è l’inserviente, a volte l’assistente, a volte suggerisce agli artisti idee su come presentare i loro lavori; nelle mostre di gruppo è il coordinatore, e in quelle tematiche l’inventore.
Idealmente un buon curatore ascolta. Deve essere capace di ascoltare l’artista, capace di instaurare un dialogo, rendere possibile ciò che l’artista ha in testa. Non è semplice, molti artisti non sanno neanche come si realizzi un evento e tendono a chiedere l’impossibile senza comprendere che serve umiltà e lavoro duro per diventare un artista.
Quando invece è un artista a fare il curatore, in una qualche maniera — e parlo per esperienza diretta —, so già da i discorsi fatti pre-organizzazione quali saranno le possibili problematiche. Di base talvolta faccio lo psicologo, altre il padre di famiglia, mi rendo disponibile e risolvo problemi e insicurezze. Cerco di essere quella figura che a me piacerebbe incontrare se fossi al loro posto. Cambia il modo di interpretare il pensiero dell’artista, è solo più semplice capirli. Conosco il loro linguaggio e i loro dubbi, perché sono anche i miei.
Torniamo, quindi, alle persone. Prima hai detto: «il figurativo mi permette di raccontare le persone che sono sempre un elemento molto interessante di studio per me». In che modo l’essere anche curatore ha modificato, o comunque informato, la tua arte?
Direi che ha riempito la mia arte, più che modificarla. «Ogni persona contiene moltitudini», per dirla alla Walt Whitman, e lo trovo fantastico. Ad esempio questa intervista mi sta già riempiendo, vedasi la comune passione per le stelle! Mi permetterà, nel tempo, di riflettere sul suo contenuto, di capire te e le tue intenzioni, e percepire o avvicinarmi al tuo mondo. Ecco, credo che come per gli scrittori, gli avventurieri o semplicemente i curiosi, conoscere le altre persone, conoscere nuovi mondi, sia il miglior modo per mettersi alla prova e magari capire meglio se stessi.
Riesci a immaginare le tue opere in altri contesti? Ad esempio alcuni tuoi lavori secondo me sarebbero perfetti per delle copertine di dischi, altri li vedo bene come illustrazioni editoriali, altri ancora, che ricordano la tecnica dello stencil, me li figuro sui muri.
Sì, mi fa piacere che te ne sia accorto. Io ho uno stile che si sposa con diversi mondi. Ho fatto sia copertine di album, sia illustrazioni che stencil. In tutti questi casi mi sono sempre trovato a mio agio. Mi piace molto poter cambiare ambiente e stile all’occorrenza.
In che modo lavori a un quadro?
Inizio dalla storia che voglio raccontare. Prendo la tela, faccio un fondo chiaro e poi ci disegno sopra. La osservo, cambio qualcosa che non mi piace. Faccio a volte delle prove su computer di colori e geometrie: se mi vanno bene li sistemo sulla tela e inizio a colorare. Alla fine della giornata osservo il lavoro e firmo il quadro con l’ultima frase della canzone che ho sul mio Spotify.
Non amo mettere dei titoli, preferisco “rubarli” alla musica.
Mi sono sempre chiesto come mai nelle arti visive sia così diffuso non mettere titoli mentre ad esempio in letteratura è rarissimo.
Ma lo sai che è una delle domande più ricorrenti nel mio settore? Personalmente mi sono anche chiesto perchè dare titoli pomposi e talvolta senza senso a opere chiarissime.
Una risposta alla tua domanda c’è: ad oggi gli artisti visivi mancano di certezze e quindi non si prendono troppe responsabilità. Perché, vedi, dare un nome a un’opera è una responsabilità immensa.
Tu lasci questa responsabilità alla musica. Che dunque, credo, sia parte importante del tuo lavoro, dato che, da quanto ho capito, ascolti sempre qualcosa mentre dipingi.
Ascolto moltissima musica. Adesso sono tornato alle sonorità del passato perché quelle attuali me le ricordano molto e quindi meglio ascoltare gli originali.
Sì, è una responsabilità che lascio alla musica. Poi mi rendo conto che i titoli si sposano bene con il lavoro che ho fatto — ad esempio Magnolia, che prima mi hai citato, è il titolo di una canzone di una band italiana che parla appunto di una donna. Il quadro anche: fatalità.
Hai dei riti particolari che segui, quando lavori?
Ho una salopette da imbianchino piena di colori. La indosso sempre, da 14 anni, anche se ora non mi sporco più e la uso solo per asciugare i pennelli.
Non lavoro mai su cavalletto ma sempre o su parete o sul tavolo. Uso sempre lo stesso pennello, numero 14 a testa piatta, per dare le prime pennellate di fondo. Anche lui ha la stessa età della salopette.
Uso solo colori di una famosa marca francese, la stessa che utilizzava Picasso. Uso sempre delle matite piccole per disegnare, mi ricordano da dove vengo. Dopo essermi accertato che ho tutti questi oggetti con me, metto in “shuffle” la musica e inizio. Se non ho tutte queste cose, non riesco a dipingere.
Come quasi tutti, sei presente sui principali social network. Si parla molto di come la “dittatura del like” in qualche modo condizioni non solo le relazioni umane e il modo di presentarsi e creare una narrazione di se stessi, ma anche l’arte stessa. Pubblicando opere e riscuotendo più o meno successo non si rischia di cominciare a “produrre” (il termine non è casuale) opere che hanno più possibilità di attirare consensi a discapito della propria crescita artistica e della sperimentazione?
La domanda che poni è un problema attualissimo. Personalmente sono sui social network, come tutti, un po’ per curiosità e un po’ per mostrare le mie opere, ma non sono uno di quelli che, se non metti un “like” all’immagine del proprio lavoro o alla sua pagina, inizia a mandarti i messaggi su tutti i canali possibili finché non lo accontenti. E, credimi, ci sono personaggi di questo genere.
Ma, come ti dicevo prima, ci sono artisti che sanno cosa sia fare arte e artisti che non lo sanno. Chi perde tempo alla ricerca del “like” non sa cosa sia un artista. Un artista fa la sua strada, sperimenta e distrugge, riparte, costruisce e, quando è pronto, posta l’opera. Ma non sta lì a pregare “like”. Ecco, secondo me chi perde tempo per i “like” e non per sperimentare dovrebbe fare un altro mestiere. I social sono uno strumento interessante ma bisogna saperli usare e con metodo.
Venezia. Come ci sei arrivato, e cosa significa per te?
Nel 2001, quando ho fatto la leva obbligatoria a Palermo, ho conosciuto un ragazzo che aveva fatto l’accademia lì. Parlando, mi disse che se volevo avere una chance di “riuscire” sarei dovuto andare al Nord. Gli spiegai che mi sarebbe piaciuto andare a Venezia, e lui approvò.
Con il senno di poi fu la scelta perfetta per me. “LA” scelta, in maiuscolo. Venezia mi ha permesso di diventare un artista, mi ha insegnato molto. Qui ho conosciuto cosa significa “ARTE” e cosa vuol dire farla. Qui ho conosciuto l’Amore con la A maiuscola.
Il mondo conosce Venezia non solo per la sua bellezza classica ma anche per gli eventi internazionali d’Arte o del Cinema. Era perfetta, sì. Se potessi tornare indietro, la sceglierei altre mille volte. Venezia è casa, magari talvolta un po’ affollata talvolta, ma casa.
Non ti chiedo delle ispirazioni. È una domanda che rischia di essere piuttosto vuota, e dopotutto di nomi ne sono usciti molti in quest’intervista. Sarei invece curioso di sapere sulla copertina di quale libro — romanzo o saggio — ti piacerebbe vedere una tua opera, più che altro per capire a che stile narrativo o a che corrente di pensiero di senti più vicino.
Una bella domanda. Sai, io leggo molto, per alcuni miei amici troppo, e spazio davvero su diversi campi. Mi piacerebbe che le mie opere finissero su copertine di libri di scrittori come Dave Eggers, José Saramago, George Saunders, John Edward Williams, Umberto Eco, Joseph Conrad, Italo Calvino… Come puoi vedere ci sono vecchi e nuovi. Il sogno sarebbe la copertina di un qualsiasi libro di Stephen Hawking, che tu ben conoscerai immagino.
Conoscendo le tue opere non mi sorprendo di vedere Conrad, Calvino, Eggers. John Edward Williams, invece, sono felicissimo che tu lo abbia citato perché quando ho letto queste righe del testo critico che accompagna la tua mostra — «piccoli uomini desiderosi che procedono arditamente nella propria vita senza dispersioni e senza voler misurare il proprio tempo» – mi è venuto subito in mente il suo romanzo Stoner.
Stoner è davvero un bel libro, Williams ha raccontato tutte le pieghe possibili dell’uomo, della vita. Un altro libro che per certi versi gli è vicino è Il Mondo secondo Garp di John Irving. Chiaramente due stili opposti di scrittura, ma raccontano la vita di due personaggi così simili.